Adolescenza

Niente sarebbe passato più in fretta di quei giorni.
Me lo ripetevo come un ossesso, attraversavo il vento sferzante del viale alberato, le lenti degli occhiali che si appannavano seguendo il mio esagitato respiro, un viso fisso nella mente, nient’altro, a scandire il ritmo del mio passo.
Mi maledicevo per non aver messo in tasca le cuffie: come un ossesso il silenzio intorno faceva rimbombare nella stanza vuota della mia testa che nulla, nulla mi sarebbe scivolato via dalle mani come quei pochi giorni che chissà quale divinità -cominciavo in quegli anni a interrogarmi sulla fede- mi aveva concesso.
Ai passanti sembravo un tipo ordinato e metodico, non ne ho dubbio, un piede davanti all’altro, tutto ben cadenzato, passo regolare, una marcia da soldatino; e intanto nella testa sempre lo stesso eco che mi provocava un afflusso anomalo di sangue credo al cuore, o forse al cervello, poi in circolo per tutto il corpo, ma cosa ne posso sapere io di fisiologia umana, ho studiato altro.
Pensavo a me guardandomi dall’esterno, dall’alto come si guarda un personaggio di un modellino in miniatura, che cammina sul suo binario sempre uguale provando a riscaldarsi; pensavo a me che mi ero sentito sempre un fuoco pronto ad avvampare e a dire sì. «Sì!» a qualsiasi gioco, sport, rissa, corsa, racconto, immersione, qualsiasi impiego di tutte le mie energie motorie, mentali, immaginifiche. Però fu un istante, come una folata di vento di troppo, e tutto mi sembrò diventare sforzo. E spreco, enorme spreco di risorse, che girava in tondo a rincorrere altra polvere.
Avevo pochi anni e non avevo ancora imparato a guardare fuori dalla finestra con aria malinconica come vedevo fare il gatto, o talvolta qualche adulto, né a pensare alle cose che avrei dovuto sognare, quelle cose di cui di lì a poco tutti mi sarebbero venuti a chieder conto.
Il mio pensiero allora non poteva che girare in tondo e al tempo stesso rimbalzare dal punto A al punto Z della retta che i miei piedi percorrevano; e ogni volta tornare e ritornare a quella grazia che mi era stata silenziosamente elargita. Ora so che ogni passo che facevo allora creava in me forze e tensioni che ancora non so dire se finiranno in esplosione o implosione. Ero quasi a destinazione, questione di minuti, questione ancora di pochi giorni.
Il tumulto che meccanicamente stava governando ogni fibra del mio organismo e ogni punto di quell’universo si arresta (arrestava?): è un ralenti che mi prende il respiro e lo lascia sospeso per aria.
È un solo dettaglio il mio ricordo, vibra adesso su questa tastiera che scrive: una pesca, la lanugine bianca della guancia in un triangolino di sole, il colore insensato della primavera mentre il finestrino si rialza e l’auto riparte, senza che io sappia dove ti porterà.
Ero lì di nuovo all’inizio del mio ritorno, di nuovo dal punto Z al punto A, ma oggi era il nostro ultimo giorno.