Altrove

“Tra questi paesaggi l’animula vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è,
e non trova riparo.”

Wisława Szymborska

Imbocco una via anonima, non so da dove vengo né dove sto andando, se è da tempo che cammino, se qualcuno mi ha già vista invadere il mondo. È sporco e pesante il mio passo, la direzione incerta, spero di trovare la strada di casa. Cammino lenta, china su me stessa per ridurre l’ingombro del mio corpo e non vedere cosa accade intorno. Un flusso incontrollato di persone mi circonda e mi incastra, tornare indietro è impossibile. Qualcuno chiama il mio nome, non mi volto, ho paura, sto per piangere. Decine di mani mi toccano, mi spingono, incendiano la pelle; sussulto: un’altra mano, mi tocca la spalla, il braccio, il fianco, la schiena. Una, due, tre volte. Non mi volto, ho paura, non mi accorgo delle lacrime che scorrono finché non provo a proteggermi il viso. Gli sguardi sono frecce che si scagliano ripetutamente contro il mio corpo, mi feriscono, sanguino. I graffi bruciano, le cicatrici sono di nuovo ferite aperte, cola sulla pelle un dolore rosso magma, esplode silenzioso e sale alla superficie. Forse quella è casa mia. Le finestre illuminate delle case sono tanti occhi che mi scrutano, si muovono lungo questo involucro stracciato, corroso, sporco, che mi contiene e mi intrappola, lo attraversano, sembrano conoscere anche cosa c’è dentro. Non c’è luogo al di fuori che possa nascondermi, dovrei essere altrove ma l’altrove non è un luogo. Mi trascino ovunque con l’intrusione del mio corpo, la presenza tangibile e ingombrante del mio essere. Mi muovo come se i miei passi potessero spaccare il suolo; evito gli sguardi per non dire che soffro. Provo a parlare ma non è mia questa voce aspra e innaturale, cerco aria che doni un suono vero alle mie parole, vedo le lettere nella testa sovrapporsi e confondersi, fuoriescono lamenti che non sanno farsi parola e frasi spezzate dal nodo che mi occlude il respiro mentre il volto avvampa e chiede scusa. Laggiù, quella è casa mia. D’un tratto sono sola. Nessuno è mai stato qui. Corro, corro fino a perdere il fiato, fino a che le gambe non mi implorano di fermarmi, fino a che il corpo per lo sforzo non dimentica che sta soffrendo, fino a che io non dimentico del mio corpo. Questa è casa mia. Sono dentro, io e il mio corpo.
Il corpo riempie la stanza, sgomita nell’aria, cerca uno spazio per esistere. Attendo la sera per distillare con la punta delle dita il disagio di essere al mondo. Recupero le parole ma non il senso. Mi alzo, chiudo gli occhi, stremata. Non so più se chiamare il sonno morte o riposo.