Aria

La sua ombra si avventa ancora su di me, come quando da bambina mi rannicchiavo in un angolo con le braccia sulla testa.

Avevo dischiuso gli occhi in una luce pesante, si incastrava ferocemente tra le palpebre e mi faceva vittima di una costrizione violenta. Sono stata sottratta al nido materno senza un perché. Ho smesso di respirare quando il filo da cui la vita defluiva e mi raggiungeva è stato reciso; ho smesso di crescere, di dormire, di scalciare. Il mio pianto straziato di dolore ha lacerato il silenzio che mi avvolgeva. Con le mani protese verso l’altro cantavo una preghiera disperata di aiuto.

Quella sera mi disse che non avremmo cenato. C’era una mela marcia sul tavolo, un pacco di biscotti vuoto lasciato aperto nel cassetto e in frigo solo una bottiglia d’acqua senza tappo, piena a metà. Mi voltai, entrando con sicurezza nel buio familiare della casa. Mi ero allenata a bilanciare i respiri, a muovermi piano, a prendere parte al silenzio; avevo memorizzato abitudini e ore – potevo uscire allo scoperto dalle sette e un quarto alle otto e per poche ore nel pomeriggio. Corsi in camera ai primi lamenti della sua voce, verso la direzione opposta dei suoi passi pesanti che facevano tremare il pavimento, e così sarebbe trascorsa la notte, come tutte le notti: scandita dal suono sordo e insopportabile del suo andirivieni incontrollato. La sua insonnia mi teneva sveglia, la sua presenza mi indicava il pericolo, i suoi silenzi la falsa tregua che mi era concessa, la sua assenza la possibilità di respirare. Ero rinchiusa in qualche metro quadro di appartamento, in una trappola dei sensi che mi costringeva ad ascoltare, talvolta a vedere, l’orrore e la miseria. Al mattino mi svegliava un silenzio asfittico che sembrava presagire una nuova catastrofe; mi sfasciavo dalla penombra esitante. Volevo sopravvivere concedendomi ogni nuovo giorno al dolore.

Con le stesse mani mi sono protetta, cingendomi la testa e serrando gli occhi, nell’angolo tra il mio letto e l’armadio, contorcendomi sotto una pioggia di colpi furiosi.

Mi accompagna una matassa dove si intrecciano pianto e tristezza, nostalgia e disillusione. Da quando lo sradicamento è avvenuto, la vita ha smesso di appartenermi, l’aria che nutriva naturalmente gli altri era per me un tesoro da conquistare. Desideravo circoscrivere la mia pena entro linee di confine visibili e definite, intrappolarla in poche vane parole e disfarmene in fretta; ma per quanto imponenti potessero essere le mura difensive che innalzavo, essa erompeva, oltre ogni margine o limite o confine.

Ho cercato la vita oltre le mura. Inseguo orizzonti di luce nell’aria limpida.