Atomi di vuoto: irrequietezza, passione e introspezione

Vanessa Leonardi ci regala una raccolta di poesie intitolate Atomi di vuoto (Le Fate Editore, 2022), una silloge di una novantina di pagine intrise di quella irrequietezza propria di una giovane donna che sonda gli abissi dell’intimità e si confronta con i due mondi – quello interiore e quello esteriore – tra i quali la propria anima resta sospesa, a volte incompresa o tradita, a volte esaltata e inebriata.
C’è tanta intimità sincera e sensuale nei versi di Vanessa, che non si tira indietro davanti alle confessioni, per quanto la poesia consenta di velarle e dissimularle.

L’ambiente circostante e la città agognata

Un senso di malessere pervade le sue parole quando parla di resa e di sopportazione riferendosi all’ambiente circostante, al posto in cui vive o si trova, come per esempio nel componimento intitolato “Desinare”: La città corre morbosa / contro questo mio lento / incedere di resa. Si tratta di un indicibile diniego perpetrato ai suoi danni che si conclude con un’amara considerazione: Tutto sa di fame / in quest’arnia senza miele. Sappiamo che l’arnia è un alveare artificiale, dotato di una caratteristica inconfondibile: le celle dove le api depositano il miele hanno una forma esagonale, una forma che, unita alla prima parola del componimento (città), evoca caparbiamente Avola, la deliziosa cittadina del siracusano che ha dato i natali a Vanessa e che fu ricostruita dopo il terremoto del 1693 seguendo una pianta rigorosamente esagonale. Forse l’arnia senza miele, incapace di nutrire e addolcire, è proprio Avola, la cui forma combacia con l’immagine del favo vuoto, o forse è soltanto un più generico e odiato luogo-non-luogo – come spiega successivamente nella poesia intitolata “Beta” – dove la noia si mischia a Viluppi di case / […] Labirinti di cemento / gomitoli di strade, ma soprattutto dove ci sono troppi sguardi accigliati (mutrie dietro […] [le] porte accostate) e le finestre sono occhi nel cemento che scarnificano l’anima e che, spiando, trasformano le megere che osservano e sparlano in Cariatidi digrignate sui davanzali, gocciolatoi di ingiusti giudizi. Ecco dunque che l’anima sogna una città più alta e nobile, lontano da quel senso di soffocamento causato dal cemento, dai pettegolezzi e dai vicoli angusti che stanno troppo stretti a chi vuole spaziare e volare: Sogno città verticali / con scale a pioli che salgono / fino alle stelle, / che si dorma sulle nuvole / col ronzio di meteoriti.

Intimità interiore e omaggi letterari

Le costrizioni e le limitazioni dell’ambiente circostante non sempre si specchiano nei moti dell’interiorità, la quale vive di un’autonoma tribolazione, alimentata da perdite e memorie: Il ricordo / tocca / più della carne / perché / s’insidia / dove le dita / non arrivano. Con pochi e stringati versi, viene ribadito un concetto: che il corpo è l’anticamera delle emozioni, che il corpo è uno strumento che una volta “toccato” trasforma il tocco in emozione, ma che i ricordi, generati dal di dentro, sono ancora più potenti nel generare certe vibrazioni. Ricordo e carne, spiritualità e sensualità, dunque: è questo il binomio che si scopre attraverso la lettura dei versi contenuti in Atomi di vuoto, ovvero indivisibili vacuità che fanno pensare a Democrito, alla filosofia greca, alle aggregazioni e disgregazioni che formano l’universo dei sentimenti. L’atomo, ce lo insegna la fisica, è di per sé vuoto: tra nucleo ed elettrone ci sono distanze abissali, ma Vanessa fa sua questa metafora e la colora di echi crepuscolari – troppo ovvi i riferimenti all’“atomo opaco del male” di Pascoli o alla “Umanità nel vuoto” di Gozzano, entrambi legati a un contesto di dolore, pianto e lacrime. L’omaggio a Gozzano si legge anche nel modo in cui l’autrice firma il proprio nome sulla copertina (vanessaleonardi), tutto attaccato e in lettere minuscole, come appare in un verso tratto da La via del rifugio del poeta amato dall’autrice (guidogozzano) e dove peraltro una bambina di nome Vanessa viene citata due volte.
Per concludere il ciclo di omaggi legati al crepuscolarismo e al decadentismo, non si può fare a meno di notare il riferimento al Vate nella primissima poesia della raccolta: Piove sul sole che / batte cocente / per strade deserte / […] Piove su me e / i miei capelli scomposti / sui giorni banali e / i segreti nascosti. Impossibile non cogliere il riferimento al panismo dannunziano e alla celebre “Pioggia nel pineto”. A questo proposito, Vanessa Leonardi emula e riproduce una simbiosi tra corpo e natura che rima con quella di D’Annunzio, o almeno che ne riecheggia i tratti della poetica del primo Novecento, come quella espressa nelle Laudi e in particolare in Alcyone. Nei versi di Vanessa il corpo si fonde con la natura, si cinge di bianchi gelsomini, cerca il contatto con la vita vegetale (come Dafne, Filemone e Bauci, come Aretusa che si bagna sotto le fronde di un salice?) fino a diventare un tutt’uno: Voglio abbracciare un albero gigante, / scorticarmi la pelle / sulla sua crosta scura / […] e sentirmi io l’albero / io foglia leggera / io fitta radice.

I quattro elementi e il tempo

Malgrado la silloge sia suddivisa in quattro sezioni, ciascuna intitolata a uno degli elementi aristotelici (Acqua, Aria, Terra e Fuoco) è spesso presente nei versi, ora sottotraccia ora palesemente, un’aspetto legato al moto, alla trasformazione, al divenire, al movimento dei corpi. Quasi inseguendo una logica aristotelica di passaggio dalla potenza all’atto, i versi di Vanessa esprimono e celebrano il movimento nel mondo sub-lunare: a brulicare nell’etere sono gli atomi di vuoto, che danno il titolo alla raccolta, ed essi si muovono nonostante la protagonista sia muta e ferma sulla terra. Paradossalmente il movimento è reso con una presunta immobilità, come l’atarassia nelle note di una composizione musicale che si sviluppa là dove la vita non circola più, o come le attese esistenziali (La vita è un palinsesto / di stagioni attese), perché [t]utto è materia che cambia / e si fa braccio foglia ruota stella verme sole.

Sensualità spiccata

L’amore, ricordato o vissuto, (ri)vive attraverso i sensi, che catturano ciò che è impalpabile e lo assaporano come si assaporerebbe una caramella, una leccornia: Rimando il mio sonno / all’attimo che segue il tuo / così i tuoi sogni giungono per primi / e io posso vederli / sgorgare dalle tue pupille verdi. / E leccarli uno ad uno / per sentirci dentro il mio sapore. E ancora: Non c’è carta, / solo una lingua bussola impazzita. // Il mio nuovo frutto e il succo tuo.
Al di là del gusto, però, è il tatto a giocare un ruolo fondamentale nella rievocazione del corpo amato, che si fa simulacro di un erotismo e di un territorio perduti: Volerti è / un piacevole cilicio / che sfregia di bellezza / la mia pelle impura. In questi versi si adombra un senso di colpa, quasi un senso di inferiorità dinanzi al ricordo di una comunione carnale perduta, perché la propria pelle è considerata impura e lo sfregio che ci si lascia infliggere è considerato un dettaglio che aggiunge bellezza, un dolore meritato.
Il contatto fisico può essere tumultuoso e farsi lotta (Circumnavigare letti ignoti / prima di scoprire un nuovo corpo // lotta indigena di mani) oppure scorrere lentamente nello scambio reciproco (Eravamo tempo di carne / e la vita scorreva calda / dal tuo ventre al mio). E ancora: Scivolo come rugiada / in balia del grecale / perche invisibile io / solco i varchi del tuo corpo. / Cado giù e nessuno mi vede. // Eppure ti irroro di vita.

Molteplici maternità

La raccolta poetica si chiude con due componimenti che, accostati l’uno all’altro, generano un particolare senso legato alla maternità. Se da un lato c’è come una sorta di rigetto e profondo abbandono (In te germogliavo / e subito in altro campo / innesto mi facevo / senza acqua / senza sole), la lontananza con la fonte della propria esistenza generano una reazione opposta, una predisposizione a sentirsi madre (Sono materna / perché non sono mai stata figlia) e un desiderio autopoietico (La voglio ripartorire [la bambina che era stata un tempo]. / Voglio darle io una possibilità). Generando una creatura, insomma, sarebbe tutto pronto per proiettare su di essa tutto l’amore spezzato e mancato, negato già in tenera età. Eppure non è facile: la donna che sogna di riversare tutto il proprio amore non ricevuto sulla figlia nascitura si guarda allo specchio ogni mattina, non per vanità ma per un gesto di autocritica, ed è dura con sé stessa, con i giudizi che rivolge al proprio corpo, alla delusione che legge in quei segni fisici che sono in grado di rivelarle ogni intima debolezza: Le mie mutande ogni mese / mi mostrano la donna / che non ho in coraggio di essere.
Sono atomi di vuoto a impossessarsi di questa disperazione liminare: l’immagine sbiadita di una figliolanza incompleta e il desiderio di rivalsa attraverso l’idea di una gravidanza che provoca sentimenti contrastanti.