Bruno e Leopardi, dal Vesuvio all’infinito

Giordano Bruno e Giacomo Leopardi, un accostamento azzardato, ma forse non tanto se ci muoviamo nell’orbita (è il caso di dire) della nozione di infinito (comunque lo si voglia intendere) e dell’incontro tra poesia, filosofia e scienza. Cerchiamo di cogliere solo qualche spunto di riflessione (e suggestione). Da un lato dunque un filosofo, Giordano Bruno che, accanto alle serrate argomentazioni, fa ricorso sovente alla poesia, così come al teatro ne Il candelaio, ma anche alla messa in scena drammaturgica dei dialoghi, alla maniera di Platone. Dall’altro, Giacomo Leopardi, un poeta che si fa filosofo in poesia, nelle prose delle Operette morali e nelle sterminate note dello Zibaldone, quest’ultimo una sorta di “blog, … un contesto narrativo in sequenze brevi in cui è scolpita una rappresentazione policentrica di punti di vista e di paesaggi simbolici che raffigurano l’idea dell’infinito”.[1] Se la filosofia ufficiale italiana, quella di Croce e Gentile, non poteva considerare Leopardi un pensatore per una questione sia stilistica (un’elaborazione asistematica) sia contenutistica (il presunto pessimismo), in diversa direzione si è mosso un altro irregolare, Giuseppe Rensi,[2] che anzi avrebbe voluto un Leopardi non letterato ma compiutamente filosofo: avrebbe così anticipato Schopenhauer e Nietzsche, addirittura armonizzandoli. Nomi non casuali, se tramite De Sanctis l’accostamento a Schopenhauer è ormai canonico: anche se non ci fu influenza diretta e Schopenhauer si limitò a constatare una spontanea convergenza; è Nietzsche invece a rivendicare l’influenza di Leopardi tanto che è grazie al Recanatese che, come dichiara, gli riuscì di superare il pessimismo schopenhaueriano.[3] Ma Bruno e Leopardi. Proviamo allora ad accomunarli con una prima suggestione “paesaggistica”: il Vesuvio. Sappiamo bene come Leopardi abbia soggiornato, a Torre del Greco, alle falde dello “sterminator Vesevo”, e come esso gli abbia ispirato La ginestra: “E tu, / lenta ginestra, / Che di selve odorate / Queste campagne dispogliate adorni, / Anche tu presto alla crudel possanza / Soccomberai del sotterraneo foco, / Che ritornando al loco / Già noto, stenderà l’avaro lembo / Su tue molli foreste” (vv. 297-304). C’è qui qualcosa delle bruniane vicissitudine cosmiche. Se i versi leopardiani sono celeberrimi, è forse meno noto, almeno a chi non si sia accostato maggiormente a Bruno, il riferimento del filosofo al vulcano della sua terra. Nato alle pendici del Monte Cicala, a Nola, Bruno fa “dialogare” quel rilievo con il dirimpettaio Vesuvio. Nel De Immenso (II, 8) ricorda come da piccolo pensasse che non vi fosse nulla oltre quel monte perché nulla poteva scorgere, mentre invece si apriva di là l’infinito stesso; ma ancora più avanti, nella stessa opera (III,1) il Nolano osserva che se il Monte Cicala gli appare in modo netto, “avvolto d’edera, coperto dai rami d’olivo, del cornio, dell’alloro, del mirto e del rosmarino, circondato da castagni, querce, pioppi, olmi, lieti per l’unione con le viti feconde”, il Vesuvio invece gli sembra nebuloso, “Tanto lontano di qui, così brutto, coperto di fumo, non produce alcun frutto, né mele, né uva, né dolci fichi”. Ma quando sale sul Vesuvio, su esortazione dello stesso Cicala personificato, la prospettiva s’inverte ed è il colle natio a sfumare nell’indeterminatezza, “con una veste del color della pece copre le oscure membra ed umile e pudico avvolge il misero corpo di una oscura caligine”, come dice il Vesuvio a sua volta personificato.[4] Ebbene, questa considerazione, applicata al suo territorio, lo proietta nello spazio cosmico: come oltre il Vesuvio c’è altro, così oltre i corpi celesti che vediamo si estende uno spazio infinito che esiste anche se i nostri sensi non lo percepiscono; i corpi celesti dalla terra appaiono diversi dal nostro pianeta, ma se potessimo trasferirci su uno di quegli astri (come dal Monte Cicala sul Vesuvio), la terra ci apparirebbe al contrario come ora vediamo quelle stelle lontane. Possiamo senz’altro dire che è qui l’immaginazione poetica a supportare l’argomentazione filosofico-scientifica. Il pensatore si fa aiutare dal poeta. E torniamo al poeta di professione, a Leopardi, e di nuovo alla Ginestra, a un passaggio che sembra esprimere la stessa visione bruniana: “… e quando miro / Quegli ancor senz’alcun fin remoti / Nodi quasi di stelle, / Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo / E non la terra sol, ma tutte in uno, / Del numero infinite e della mole, / Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle / O sono ignote, o così paion come / Essi alla terra un punto / Di luce nebulosa…” (vv. 174-183). E questo proiettarsi leopardiano sembra corrispondere all’eroico furore di Bruno che scrive in versi aprendo De l’infinito, universo e mondi: “A te mi volgo e assorgo, alma mia voce; / ti ringrazio, mio sol, mia diva luce; / ti consacro il mio cor, eccelsa mano: /…/ Quindi l’ali sicure a l’aria porgo / né temo intoppo di cristall’o vetro; / ma fendo i cieli, e al’infinito m’ergo. / E mentre dal mio globo a gli altri sorgo, / e per l’eterio campo oltre penetro: / quel ch’altri lungi vede, lascio al tergo”.[5] Non si può fare a meno di pensare agli “interminati spazi” de L’infinito leopardiano, all’“Infinito silenzio” e a quella “immensità” nella quale si annega il pensiero nel dolce naufragio che il poeta compie. Inoltre, il bambino recanatese scrutava il cielo tanto da scrivere a quindici anni una Storia dell’astronomia, un poema in prosa nel quale si prospetta l’esistenza di mondi infiniti e la possibilità della vita su un altro pianeta. Ma anche la concezione della materia spiritualizzata di Bruno, che vede materia e spirito come un indissolubile sinolo aristotelico (al di là dell’antiaristotelismo fisico-cosmologico bruniano) trova eco in Leopardi che, nel suo sensismo materialistico, concepisce la natura come una totalità organica e vivente: è la materia stessa a sentire e pensare (Zib., 4252-4253). Anche Nietzsche dirà che noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo, corporiamo. Se in Bruno la cosmologia si lega fortemente all’etica e alla critica dei costumi del suo tempo, una morale attivistica che impegna l’uomo proprio per la sua collocazione nella natura, e lo coinvolge spiritualmente e fisicamente,[6] abbiamo anche un Leopardi “politico”, come dimostrano tante note dello Zibaldone, soprattutto nel 1820-22, e la produzione poetica del 1831-35. Leopardi, più che ruolo di riformatore, si è assegnato quello di una “coscienza critica” che diagnostica, come un “occhio ippocratico”, i mali del popolo italiano e del genere umano:[7] insomma è stato un fisiologo della corruzione umana; è stato, niccianamente, un nichilista attivo. Nel chiudere questo breve pezzo rivolgo uno sguardo fuori: sì, dalla mia finestra vedo sia il Monte Cicala sia il Vesuvio e l’orizzonte aperto, il cielo e dunque quell’oltre che tende a infinito. Aldo Masullo voleva ribattezzare il monte del Nolano: se quello di Recanati è il colle dell’infinito, ebbene, il Monte Cicala di Bruno è senz’altro il colle degli infiniti mondi. L’infinito, gli infiniti mondi che ci sono stati spalancati dalla loro scrittura, dalla loro immaginazione poetico-filosofica.


[1] Così Luigi Simonetti, Dolore della vita e prospettive della mente umana in Bruno e Leopardi, Il quaderno edizioni, Boscoreale 2018: dagli appunti per la presentazione che si fece del volumetto prendono l’avvio queste mie considerazioni. [2] Ce lo ricorda Alfonso Berardinelli, Quando il Novecento riscoprì la filosofia di Giacomo Leopardi, “Avvenire”, domenica 9 settembre 2018 (avvenire.it). [3] Cfr. Friedrich Nietzsche, Intorno a Leopardi, a cura di Cesare Galimberti, Il Melangolo, Genova 1999. [4] Si segue qui la traduzione in Giordano Bruno, Opere latine, a cura di Carlo Monti, Utet, Torino 1980, pp. 510-511. [5] Giordano Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di Michele Ciliberto, Meridiani Mondadori, Milano 2000, pp. 321-322. [6] Cfr. Aniello Montano, La mente e la mano. Aspetti della storicità del sapere e del primato del fare in Giordano Bruno, La Città del Sole, Napoli 2000. [7] Cfr. Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Bompiani, Milano 1997. Immagine di copertina: Giordano Bruno, ritratto di Eduardo Amato, 2001, Certame Bruniano, coll. Montano