C’era una volta in America
Prendere calci in faccia tutta la vita. Bisogna restituirli, adesso. Senza rimandare. Senza esitare: calci, morsi e pugni. Altrimenti soccombi, sanguini, finisci in poltiglia. Le ferite che si aprono nella dignità non si lavano, restano aperte a suppurare. Se non rispondi perdi te stesso, il mondo ti sostituisce con un manichino di stoffa e continua ad affondare i colpi, fino al massacro. Non si raddrizzerà il mondo, non diverrà buono, continuerà a fottersene ma almeno imparerà a girare alla larga. Almeno si ristabilirà la giustizia minima della sopravvivenza.
Sandro aveva preso troppe botte. Era tempo di dire basta. Mi sarei messo coi palmi nudi davanti ai colpi che si abbattevano senza pietà. L’amicizia è un valore non contrattabile. Dentro al deserto in cui eravamo capitati, la nostra amicizia era un luogo che dava un senso alle cose e riparava. Vivere in mezzo alle macerie e sapere dove andare. Mai, ai tempi del Liceo, avrei pensato di essere d’accordo con quel trombone obeso di Cicerone: l’amicizia è il rapporto umano più puro, assolutamente spirituale.
Avevo conosciuto Alessandro il primo giorno di ginnasio: il caso mi aveva deposto timoroso nel suo stesso banco. Questo adolescente tozzo e muscoloso era stato l’unico ad aver avuto l’ardire di accogliere l’invito alla lavagna per scrivere l’alfabeto greco. Cosa che aveva eseguito alla perfezione. Pensai ammirato che avesse studiato in estate o che fosse un genio precoce. Seppi da lui di ritorno nel banco che, semplicemente, l’anno prima era stato bocciato. L’anno insieme filò liscio, quello seguente fu bocciato di nuovo. Aveva approfittato di un tema sulla Natura per accusare la nostra prof sessantottina di plagiarci, mentre lui era fascista da generazioni e lo sarebbe rimasto. Lei lo umiliò pretendendo una lettura in classe del manifesto politico e a giugno lo bocciò. Lui, alla lettura dei quadri, si limitò a otturare un lavandino con la saponetta, a divellerne un altro e a fracassare delle sedie contro le pareti infami della scuola. L’anno dopo dovemmo separarci, soltanto per le ore scolastiche si intende. Ci rivedemmo in succursale l’anno seguente: io in quarta, lui in terza. Durò poco. Fu bocciato pure quell’anno. Ingrippò con lo zucchero nel serbatoio il motore dell’auto della carnefice, la supponente prof Rosato. Di mio, condivisi soprattutto perché questa energumena non aveva saputo spiegarmi il significato di “L’essere è e il non essere non è”.
Stavolta era davvero finita. Sandro doveva lasciare la scuola per sempre e iscriversi altrove. Scelse un istituto parificato, quelle merde dove paghi e recuperi gli anni. L’anno dopo venne il momento di saldare il conto per diploma ma i soldi non c’erano. Era dunque arrivato il momento di rispondere.
Era pur vero che Sandro non aveva avuto alcuna voglia di studiare, evidente che fosse uno studente scomodo, uno sfaticato e ammuinatore, così come era evidente che fosse un ottuso fascista, che non disdegnava qualche vago teppismo, ma chi sapeva la sua rabbia da quale tetro luogo venisse, quale oltraggio avesse subito senza dichiararlo, quanto invocasse il padre assente col richiamo ostentato al fascio genetico, quanto avesse dovuto darsela, la forza, dentro al suo mondo sbrindellato. Oltre alla figura di adolescente ingombrante che andava nel mondo al posto suo, di lui nessuno sapeva niente, perché mai nessuno aveva dubitato o chiesto. Prendi le botte e non sai perché, stringi i denti illudendoti che passerà, non comprendi perché devi sostenere tutta la vita da solo, perché non c’è nessuno, solo il silenzio, l’indifferenza e la tua confusione. Eppure c’è l’amicizia, ci siamo noi. Ci proteggeremo, risponderemo e ci guarderemo le spalle. Qui non c’è nulla da temere, qui è come avrebbe dovuto essere.
Mia zia aveva sposato un ricco commerciante, uno che aveva ereditato dal padre il negozio più florido della città nel settore degli articoli per la casa. Tutto quello che poteva servire in un’abitazione si trovava lì dentro: dalle posate alle friggitrici, passando per gli spremiagrumi. La merce usciva a fiumi e i denari entravano a montagne. Durante i periodi festivi, lavoravamo come magazzinieri per la ditta Riccardi e figlio. Lo zio acquisito aveva assunto me e io mi ero tirato dentro Ale. Di fatto facevamo i facchini: trasportavamo le merci dal deposito sottostante al reparto vendita al piano strada, attraverso una scala interna, stretta e ripida. Alla bisogna scaricavamo all’alba i camion che consegnavano i prodotti. Percorrevamo migliaia di scalini per dodici ore con pile di oggetti da affidare alle ragazze delle vendite, le cui richieste echeggiavano in filodiffusione nel deposito: «Due pirofile primavera, un set di coltelli ebano, bicchieri bordino dorato…». Io che ero gracilino mi aggrappavo alla forza di volontà e al bisogno di guadagno. Ci rifusi un testicolo per gli sforzi inappropriati alla mia sostanza. Inoltre i guadagni non erano mai quelli attesi: al momento della retribuzione, lo zio proprietario scalava dalla paga i ritardi al lavoro e le rotture fortuite degli oggetti durante il trasporto. Con la sua spietata calcolatrice timbrava il segno “meno” implacabilmente e la paga finale si assottigliava di brutto. Venne il momento di pagare il diploma di Sandro. Andammo fiduciosi a chiedere un prestito al magnate, lo avremmo ripagato col lavoro. La risposta fu laconica: «Non faccio un prestito neppure se scende Gesù Cristo dalla croce». Ce ne andammo, umiliati, in silenzio.
Quando Sandro propose di rapinarlo, io accettai. Non mi mosse tanto la protervia dello sfruttamento e neppure l’immoralità del ricco commerciante, che tra l’altro seduceva le commesse sfruttandone l’indigenza, quanto un ricordo di tempo addietro. Riccardi figlio aveva convocato me e Sandro, durante la pausa pranzo, nel suo studio annesso al deposito e ci aveva svelato esaltato il segreto appena scoperto per aumentare le vendite. Aveva tracciato una circonferenza su un foglio bianco e aveva sentenziato: «Questa è la mente di un umano: nella parte bassa, nascosta, c’è l’inconscio», basivo, stava parlando di psicoanalisi, «la parte inconsapevole dove ci sono le pulsioni più profonde e i desideri; al centro c’è l’Io, l’elemento lucido e razionale; qui, qui in alto invece il Super Io», intanto dentro la circonferenza segnava i confini, «che giudica, frena, impone. Ecco…», pausa teatrale, “noi dobbiamo agire sull’inconscio, stanarlo, disarmarlo, denudarlo! I sorrisi e la seduzione delle commesse lusingheranno i desideri e le persone compreranno ogni cosa». Ero sconcertato, questo individuo voleva usare Freud per vendere pentole e vasi. Io questo non potevo perdonarlo. Questa offesa e la sacra amicizia mi convinsero a derubarlo, a ripristinare una temporanea giustizia. In realtà Sandrino all’inizio aveva proposto di prendere in ostaggio mia zia e le due figlie finché lui non avesse versato il riscatto. Questo mi era sembrato un po’ eccessivo.
L’ultimo giorno di lavoro pasquale, il venerdì santo, facemmo un doppione delle chiavi, levammo il maniglione interno e in piena notte accedemmo al deposito dall’androne interno del palazzo. Simulammo un buco nel muro che doveva giustificare il maniglione interno sollevato e ci mettemmo a cercare il bottino. Era venerdì e Riccardi versava l’incasso il lunedì: i soldi dovevano essere da qualche parte nello smisurato deposito stracolmo di merci. Erano banalmente nella scrivania. Mentre nei vasi sulle scale trovammo una mazzetta turgida di assegni. Sandro volle esagerare. Entrammo nel piano vendita, fronte strada, strisciammo sul pavimento, divellemmo la cassa e pure le cassette per le mance alle commesse e le portammo giù. Dalla cassa nulla, se non un anello con un’enorme pietra verde, dalle cassette pochi spiccioli. Era ora di filarsela. Si viaggiava in un sogno, la mente concentrata, l’animo esaltato. Mi prese un impulso irrefrenabile di cantare nei microfoni a circuito chiuso usati per chiamare gli ordini. Sandro mi fulminò interdetto. Volevo almeno lasciare un messaggio di scuse alle compagne operaie. I due complici mi spinsero fuori a forza.
Nella busta c’erano quindici milioni e settecentocinquantamila lire: tre milioni e mezzo saldarono l’acquisto del diploma, con quattro milioni volevamo comprarci un chilo di fumo, un milione servì per farci il guardaroba e sette milioni li depositammo in conto bancario dopo l’interrogatorio molesto del direttore circa la provenienza. Surreale. Queste cacche riciclavano soldi di morte e chiesero a noi dove avevamo presi i nostri. Uscimmo da Fusaro che eravamo una sciccheria: camicie pastello come le portavano i chiattilli, pantaloni a sigaretta, bretelle, finanche delle giacche col fazzoletto nel taschino. Ci sentivamo davvero i ragazzi di C’era una volta in America. Poi andò tutto malissimo.
Riccardi ci tese una trappola e noi abboccammo. Non aveva niente in mano ma coinvolse i fratelli di mio padre: o gli ridavamo i soldi – che da laido commerciante aveva raddoppiato – o ci avrebbe denunciati. Per evitarmi la galera, i fratelli della buonanima di mio padre mi convocarono. «Quell’uomo è una merda e Sandro è un mio amico, qui non ci sarà confessione». Presi uno schiaffo a mano aperta dal minore. Crollai vedendo mio zio Mario, che amavo, in lacrime. Un omone di due metri con la divisa da pompiere che piangeva per me. «Sì, siamo stati noi e io lo rifarei mille volte». Servivano i soldi: svuotammo il conto ma ne occorrevano il quadruplo. Sandro avrebbe fatto la rivoluzione per trovarli, lo sapevo. Adesso i bisogni si erano invertiti ma l’esito non sarebbe mutato. Eravamo Noodles e Max. Dentro a questa melma ci saremmo salvati da soli, come sempre.
Ci vedemmo con Sandro e il terzo socio. Quest’ultimo si sfilò subito, non erano affari suoi. Non mi deluse neppure, un ratto che non avrebbe mai conosciuto la metafisica dell’amicizia, non possedeva l’idealità e la trascendenza, sarebbe vissuto e morto topo a gozzovigliare nei rifiuti della vita.
Guardai Sandro. Farneticava. «Venderei la TV di casa, ho chiesto a chiunque, non li ho trovati». Mi incalzava con gli occhi febbricitanti, mi spaccava la vita.
«Rivedetevi C’era una volta in America, non lo avete capito».
Mi girai e me ne andai.