Prose

Chaffeur

Mi ha detto che potevo restare seduta, che non serve la mia presenza, tanto non sono registrata.
Guardo la serie di orologi senza lancette allineati sulla parete con i fusi orari di varie città del mondo. In questa fetta di nord Europa segnano pochi minuti dopo le quattro di un plumbeo pomeriggio di dicembre. A dividermi dal freddo si staglia la gigantesca vetrata a tutta altezza della hall del grande albergo dove sono arrivata ieri sera e che lascerò tra pochi minuti. Ha pure cominciato a cadere una pioggerella leggera e gelida, tanto per ricordarmi che è una costante nei nostri incontri.
Lo guardo di spalle mentre fa il check-out alla reception, mi piace sempre un sacco, che ci devo fare. Malgrado ciò, non mi si scrolla di dosso l’impressione di uno che ti getta in pasto briciole.
Briciole di caviale, è vero. Ma pur sempre briciole.
Completate le procedure, segue immancabile la telefonata ai cari per avvisare di ogni spostamento. Non lo capirò mai, cosa vuoi che cambi per la persona a casa se si è dall’altro lato del mondo. Mi spiegano che è pur sempre una premura che rinsalda il legame. Una conferma di quelle piccole certezze della vita matrimoniale che puntellano una strada in tutto affidabile e sicura.
Amore, sono arrivato.
Adesso prendo il taxi e mi sposto dal posto x al posto y.
Gioia, il bambino come sta? Ha mangiato oppure ha fatto i capricci?
Papà torna, non ti ha abbandonato.
Anche se il viaggio di lavoro dura tre giorni. Probabilmente sono io che non so stare al mondo, comincio a considerare.
Quando mi invitò a casa sua in Canada lo scorso anno mentre la famiglia era in vacanza, si preoccupò di togliere di mezzo tutte le fotografie di sua moglie. Un gesto carino, no?
Quando lo raccontai alla mia amica qualche tempo dopo, mi guardò con l’espressione di chi assaggia uno yogurt scaduto e sputò: ma come fai?
Fingo di essere impegnata con il mio cellulare sempre tristemente mezzo scarico. Nella lounge è tutto un viavai di persone con trolley e ventiquattrore, sembra un ritrovo di manager e dirigenti d’azienda. Lui non è da meno, ma si vede da cosa indossa che non è uno di quelli cheap, tipo i commessi viaggiatori. Lui è formale in modo disinvolto e al tempo stesso informale nella maniera di chi è consapevole che ogni accessorio è studiato e costa almeno il doppio. È un po’ agitato, si guarda in giro continuamente, esce più volte sul piazzale senza giaccone con questo freddo boia perché non conosce la faccia di chi verrà a prenderci, e non vuole farsi attendere. Io credo che stia in ansia perché dovrò salirci anche io su quell’auto. Stamattina non si è azzardato nemmeno a prendermi per mano per strada. Non sono la sua compagna, non sono una collega di lavoro e si vede lontano un miglio.
L’autista sarà abituato a scortare un certo genere di persone su e giù tra aeroporto e uffici, capirà immediatamente che qui si tratta di un altro tipo di compagnia.
Sbarcata da un aereo ieri in serata, autobus, e infine il bar dove ho atteso il mio uomo dopo la cena di lavoro, seduta da sola per quasi un’ora e mezza. Poi su in camera.
Sono quasi tre anni che va avanti, storia lunga, non è quello che si immagina da queste due righe appena. Tuttavia lo so bene quello che state pensando, di primo acchito. Ogni tanto pure a me, quando non riesco a reprimere l’impulso distruttivo, ‘sta cosa mi fa vagamente sentire una puttana di lusso, come potrebbe definirmi il barman di fronte. E non vi nascondo che, al principio, trovarsi un po’ in quella trasgressione era un gioco eccitante.

Mi volto alla vetrata. Piove ancora, adesso di più. Attraverso il cristallo i contorni sono sfrangiati, i movimenti spezzettati. Uh, quello col viso che pare squagliarsi è lui che si sbraccia, mi sta facendo segno di uscire. È arrivato lo chauffeur.
E così compaio all’ultimo di corsa, giusto per infilarmi a testa bassa in macchina. Il tipo, un gigante sulla sessantina tutto vestito di nero e con i capelli tra il biondo e il bianco tagliati a spazzola come un boia nazista, non fa molto sforzo a posare nel portabagagli il mio zaino, la perfetta esemplificazione della temporaneità della mia presenza in questo luogo e forse pure nella vita di chi sto accompagnando.
– Non si poteva stare ancora troppo in giro con questa pioggia. Ci facciamo portare direttamente in albergo, ceniamo con calma, l’aereo è domattina presto.
Sto morendo dal sonno. Non ce la faccio ad abituarmi al respiro e al corpo di quest’uomo nel mio letto, come potrei, lo vedo poche volte l’anno, e non riesco ad addormentarmi neanche dopo averci fatto l’amore due ore. Così mi capita di restare sveglia fino all’alba, riuscendo a riposare a stento. Anche il paesaggio appannato che ci scorre di lato invita a chiudere gli occhi.

– Non so se accettare questo incarico, nei prossimi giorni metabolizzerò i pro e i contro. Ho costretto mia moglie a cambiare lavoro e seguirmi in Canada ed ora non è facile dirle torniamo in Europa.
– Ci è venuta lei di sua spontanea volontà, nessuno l’ha costretta. Anzi, ha aspettato dieci anni che lasciassi l’altra, ti facessi vivo e scegliessi lei.
– Tu scherzi, ha sofferto da cani troppo tempo per colpa mia. Se non altro, ha avuto l’onore delle armi.
Mi urta tremendamente questo discorso. Concedere l’onore delle armi: questo sarebbe l’amore?
Guardo nello specchietto retrovisore l’occhio vitreo dello chauffeur, concentrato alla guida o forse spalancato su altri pensieri. Se potessi gli direi: ferma la macchina e fammi scendere mo’ mo’.
– Sposarla e farci un figlio non è esattamente l’onore delle armi. Uno sceglie cosa vuole essere e quanto è disposto a sacrificare. Non sposi una persona per risarcirla di un torto.
– Beh, allora diciamo che a un certo punto della mia vita io ho avuto voglia di paternità. L’ho invitata per il suo compleanno una settimana da me. Quando è tornata in Italia, era già incinta.
– Ammazza, complimenti.
Ho la nausea. Sarà per il deodorante di questa vettura lustra o forse mi è rimasta sullo stomaco l’omelette ingoiata a pranzo insieme ai discorsi di questo stesso tenore. E allora lancio un’altra occhiata nello specchietto, dove è impresso lo sguardo fermo dell’autista, credendo di intercettarlo per un secondo.
La capisci la mia lingua tu, che dopo il lavoro andrai a scolarti i quotidiani due litri di birra? Per me un sorso di oblio, grazie.
Sei un cane sciolto pure tu, dentro quel vestito lucido e senza un granello di polvere, oppure hai una moglie che te lo stira per bene ogni sera?
Dammi una mano, olandese di uno chauffeur, Io ho consumato tutti i pensieri.
Niente. Il teutonico stava solo guardando indietro per cambiare corsia in autostrada.

– Me la fai una grattatina in testa? Mi piacciono un sacco.
Allungo il braccio, comincio un rituale che più volte ha scandito momenti di tenerezza. Dura pochi minuti, sono stanca, vorrei addormentarmi io con una carezza tra i capelli.
– Già finito? -mi fa- Mia moglie era capace di stare lì per ore, quando ancora era innamorata di me. Prima al telefono non ha voluto parlare, mi ha passato direttamente il bambino.
Cambia discorso, per favore.
– Allora, che impressione hai avuto di questa città ?
Mi hai sentito, quindi. Bravo.
– A parte il clima, è un posto pieno di giovani, dinamico. Un po’ anonimo forse, ma in un paese civilissimo e moderno. In Europa, uno di quelli all’avanguardia.
Mentre parlo, mi immagino di tornarci anch’io per incontrarlo una volta al mese o magari più. Di cominciare a mettere della biancheria in qualche cassetto nel suo appartamento.
– Se il lavoro dovesse concretizzarsi immediatamente, mi trasferirei da solo all’inizio. Chi lo sa il bambino come la prenderebbe. Sarebbe un dolore lancinante separarmi da lui. Certe volte mi manca il fiato al pensiero. Mio figlio in Canada è sereno, lo abbiamo messo in una bella scuola, vive nella stessa casa da quando è nato, parla un’altra lingua. Sradicandolo lo farei soffrire moltissimo e questo mi toglierebbe la pace.
Pensieri sciolti, se non altro è un uomo che dice quello che pensa senza filtri. E’ uno che premia, risarcisce, si sente indispensabile per tutti e per ognuno. Tranne che per me.
Domani scapperà di mattina presto sul suo volo internazionale mentre io resterò altre tre ore ad aspettare il mio low-cost sul divano della hall dell’albergo fantasmagorico che stiamo raggiungendo. Avrà pagato, restituito la chiave magnetica e non sarà più possibile risalire dopo la colazione a riposare un po’.
Non sono registrata.

Bevo un sorso della minerale di cortesia poggiata sul ripiano tra le poltrone posteriori della Mercedes. Ho la bocca arida, vediamo se mi passa questa specie di nausea. Si sta proprio comodi, le due sedute sono spaziose, il largo bracciolo al centro le separa impedendo ogni contatto fisico. L’automobile scivola silenziosa come il suo autista impassibile. Non è come quando sali sugli Uber e ci trovi gente di tutti i tipi, disposta ad intrattenerti anche solo per i dieci minuti della corsa con la radio accesa. Qui è tutto immobile, grigio e muto. Come pattinare sul ghiaccio.
Allungo di nuovo il braccio sinistro e gli prendo la mano, intreccio le mie dita nelle sue. Mi piace la sensazione che dà lo spazio morbido e liscio in cui mi infilo, mi accompagna ancora in quella sorta di fiducia cieca e insensata, che poi è l’abbandono dell’amante senza rete alcuna. Per me, la forma più alta di amore.
Chauffeur, che dici tu? L’avrai mai provata una cosa così?
Per giocare a questo gioco bisogna essere tosti, accettare l’inaccettabile. Cerchiamo l’equilibrio, ma ci innamoriamo di chi ce lo sposta. Magari anche tu, con quella faccia quadrata da aguzzino, piangi a casa tua in canottiera davanti a un film. E adesso stai sognando il caldo dei tropici e l’avventura, mentre guidi in questi paesaggi piatti e depressi.
Io, invece, stasera andrò a cena in un posto chic.
Guarderò il tavolo di fronte, dove, a proposito, ci sono due genitori troppo anziani per il bimbo seduto in mezzo, che non parlano tra loro ma gli riversano addosso un’apprensione accaldata perché scelga finalmente qualcosa dal menu.
E mi sentirò bene. Gettata nel mondo, ma libera di essere santa e puttana, derelitta e salvata.

Intanto l’auto rallenta, frena, infine si ferma e ci deposita in bocca all’entrata scintillante di un Hilton, con il portiere in livrea che si apposta subito al bagagliaio. Il mio uomo si affretta a recuperare il suo trolley e quasi non mi aspetta; anzi, come spesso succede, è già tre metri dentro la hall, avanzando a lunghe falcate e testa altissima.
Io scendo e passo sul retro per afferrare il mio zaino.
E in quell’attimo, nel fruscio dei soprabiti che si sfiorano di poco, mi sembra di sentire sottovoce: Nenne’.
Davanti a me, resta fermo come un soldato, lo chauffeur.
– Thank you, sir, goodbye.
Faccio solo qualche passo avanti, poi mi volto con la coda dell’occhio. È ancora piantato lì e mi fissa senza sorridere nemmeno con una ruga.
Poi, all’improvviso, volta la testa di scatto con quel gesto che indica inequivocabilmente un punto lontano, apre la bocca e mima: “Nenne’, fujetenne”.