Cinque giorni fra trent’anni, Recensione del libro

La telefonata di un notaio di Montecarlo annunzia ad Arturo che Guido, il grande amico che non vede da trent’anni, è morto e lo ha nominato esecutore testamentario. Così inizia il romanzo Cinque giorni fra trent’anni (Marsilio) di Francesco Fiorentino. I presupposti di questa misteriosa richiesta si trovano nella giovinezza universitaria di un gruppo di amici negli anni Settanta, alla Federico II di Napoli. Il narratore, appoggiandosi alla prospettiva di Arturo, ricostruisce quegli anni, la sete di conoscenza, le fragilità, i rapporti densi di amicizia e di erotismo con giovani donne, Emilia, Carla, Lea e poi Ada, Elvira. Al centro di questo ambiente, il legame tra Arturo e Guido e l’amore di Arturo per Roberta, l’irresistibile cantante di night club. Questo periodo di pensosa formazione culturale e sentimentale, raccontato in maniera struggente, si interrompe bruscamente. Arturo poi scoprirà a Montecarlo i suoi sorprendenti esiti e le chiavi per capirlo. Tutte le giovani donne che abbiamo conosciuto all’Università le ritroviamo trent’anni dopo in momenti cruciali della loro vita. Si susseguono così cinque capitoli, apparentemente isolabili, di fatto intrecciati tra loro non solo per il ritorno dei medesimi personaggi. Tutte le storie hanno una tonalità e un’indole analoga. Queste giovani donne, in età matura, sono diventate la nuova borghesia, avvocate, professoresse, giudici. Ma non è questione – come ci aspetteremmo da uno studioso di Balzac come Fiorentino – di Illusioni perdute. Non c’è in loro nostalgia per quella giovinezza, né per la perdita dei suoi valori, anche perché non servono nelle esperienze in cui ora sono coinvolte. Comunque fedeli a quell’epoca, tutti i personaggi continuano a chiedersi quello che è giusto fare davanti alle contraddizioni della loro esistenza; sono riluttanti ad accettare “l’aspra indifferenza dell’età adulta”. Si susseguono così cinque capitoli, in cui ognuna delle donne si trova a compiere scelte in cui si contraddicono desideri e convinzioni, affetti e quiete. Fiorentino si cala in psicologie femminili: ne descrive i turbamenti, le insoddisfazioni, la gelosia, ma anche la volontà di accettare le sfide, il coraggio. Il capitolo più intenso è forse quello in cui Ada è presente in assenza. Suo marito, rimasto vedovo, è accudito da una badante bella e silenziosa. Quali possono essere i limiti di questo rapporto? E se l’alternativa è tra essere giusti o felici?
Tutte queste storie sono racchiuse in sole 153 pagine. Eppure, il lettore non ha la sensazione di un ritmo concitato. Anzi. Soprattutto nel primo capitolo, il racconto sembra scorrere con lentezza, la stessa lentezza della vita di quei giovani alla ricerca di una identità. L’autore racconta sempre solo l’essenziale, niente descrizioni, né digressioni, dritto verso i finali in cui si trovano colpi di scena, epifanie. Quasi sempre al presente in una sorta di proiezione cinematografica delle storie. Ma nella prosa asciutta si insinuano ogni tanto metafore (tipo: “Giugno è il sabato dei mesi”), brevissimi indugi poetici (come la frase scelta in copertina) che riescono a rendere in maniera fulminante stati d’animo, sentimenti. Soprattutto riesce a costruire una struttura complessa e però disinvolta di collegamenti tra le varie storie. Fiorentino, che ha insegnato a generazioni di studenti l’arte narrativa di Balzac, Stendhal, Flaubert, mostra qui di averne una propria che prescinde dalla sua esperienza di insegnante. Questo non è il romanzo di un professore, è il romanzo di un romanziere.