Con te e senza te

Si cresce inseguiti dall’eco del pianto primordiale, l’inizio della vita è il presagio della morte e dell’amore perduto. Lei non ha più un corpo: è una voce giovane che riecheggia nella memoria e impasta parole d’amore in un italiano contaminato; è il fruscio delle sue lunghe gonne plissettate, il calore della sua carne nuda quando mani minute avvinghiavano avidamente il suo seno gonfio per nutrirsi. La vita segue un moto circolare di ritorno all’indistinto. Si vorrebbe regredire al Niente, quando essere qualcuno vuole dire non sapere chi si è. Si vive tra l’attesa implacabile di un amore e la condanna a quell’unico, antico e inestirpabile, che con la sua violenza disillude ogni altro. La madre ha donato e sottratto l’alimento necessario alla sopravvivenza, senza cui la vita appare illeggibile, disarticolata. La luce mi ha ferita quando sono nata, ho serrato le palpebre per illudermi di trovarmi ancora nel tuo buio, il fragore del mio primo pianto implorava: aiutami, risucchiami di nuovo nel tuo ventre caldo, lasciami riposare ancora – Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa. Per tutta la vita è stata questa la mia preghiera silente. Anelo ancora a te, a te colpevole e spavalda, che hai giocato a intrecciare i miei capelli tra le due dita rozze, che mi hai tenuto la mano distrattamente senza mai stringerla, che all’asilo mi hai voltato le spalle mentre piangevo, indifferente, e ti ho visto attraversare la pioggia ed evaporare nell’androne cupo e mai più ritornare. Come la prima volta, annaspavo per la brama della tua morbidezza, per poggiare la testa sul tuo petto e unire la tua vita alla mia vita, la tua solitudine alla mia solitudine, il tuo dolore al mio dolore. Dal principio provo a uscire da te, a liberarmi dal tuo riflesso pietoso che mi pettinava i capelli, dal pensiero pungente del tuo disamore e quello di tutti, di cui ancora tu sei responsabile, con i capelli inceneriti e le labbra sottili a mimare lo sdegno e la mia vergogna. La vaga somiglianza che ci accomuna è il segno della tua condanna sul mio corpo – qui è dove si manifesta il dolore: tu mi appartieni. E ti vedo. E ti porto in giro allungando meccanicamente le labbra per sorridere, gli angoli degli occhi si increspano e si compie il disegno della felicità, la consuetudine a cui, facendomi nascere, mi hai assuefatto. Ripeto i tuoi gesti, la stessa tua posizione grottesca, i tuoi movimenti sgraziati. Le corse affannose per elemosinare un gesto d’amore, il bisogno nostalgico di un riparo lontano. A nulla valsero i miei tentativi di trovare l’amore al di fuori di te. Senza le tue radici, con te e senza te, così resto, con il tuo fantasma a interporsi tra me e ogni cosa; per la prima volta ho sperimentato la più nera infelicità terrestre: di esistere vivi dove non c’è nessuno che ci ama.