Corpo

Quando il telefono della Gazzetta di Voraci aveva squillato, Niccolò si era voltato a guardarlo. Incredulo.
Che potesse essere successo qualcosa degno di nota gli sembrava fuori discussione: di domenica non accadeva nulla, non c’era passione o avventura che tenesse nel giorno del Signore.
Eppure il dubbio ̶ ne poteva venir fuori l’esplosione di un palazzo con centinaia di morti o un omicidio misterioso a lanciare la sua carriera ̶ lo aveva fatto saltare dalla sedia.
Dall’altra parte del filo la voce era roca e agitata, parlava confusamente di un matrimonio interrotto. La sposa, una cosa da non credere, al momento di dire sì aveva detto no, era scappata e aveva lasciato gli invitati in chiesa, e lo sposo certo anche lo sposo, e se n’era andata alla tavola calda sulla statale, aveva camminato sotto il sole che scottava ferocemente con lo strascico del vestito bianco di pizzi e merletti tutto ricamato nella mano destra, appallottolato come un Super Santos, i parenti e gli invitati dietro che pareva una processione. E si era seduta.
A far cosa la voce dall’altra parte non lo sapeva.
Fuori dal locale le acconciature e le cravatte si erano fatte lente.
Gli abiti di organza friggevano sulle gambe delle donne, mentre le chiacchiere scorrevano tra gli invitati che si sventolavano con quello che trovavano sotto mano.
Niccolò raggiunse l’ingresso e perlustrò con lo sguardo la tavola calda. Il bancone in legno scheggiato in più punti, la foto scolorita di un personaggio famoso appesa al muro, le pizzette mosce a riposare dietro la vetrina appannata. L’aria occupata dal brusio sottile delle persone che guardavano la coda dell’abito bianco accartocciata a terra come una montagnella di neve.
Prima di avanzare verso la sposa, Niccolò esaminò la sagoma minuta, percorse con lo sguardo le spalle dritte e i capelli raccolti in uno chignon puntellato di fiori e brillantini, le dita strette intorno a un supplì che si facevano spazio verso la bocca.
Soltanto quando lei si voltò ̶ «Würstel con patatine fritte, per piacere» domandò al cameriere con voce flebile ̶ , la vide.
Sentì allora una palla di fuoco esplodergli nello stomaco e la testa farsi pesante. Il volto si infiammò mentre si lasciava cadere sullo sgabello davanti al bancone cercando con lo sguardo un appiglio qualsiasi per evitare di svenire.
Il cameriere, dal canto suo, fece spallucce.
La prima ad arrivare fu la madre. Si sedette davanti a lei ancora impacchettata in un vestito rosa pieno di veli, il volto scuro chiazzato qua e là dal trucco che cedeva all’avanzare del caldo.
Parlò calma. «Funziona così», disse, «è stato così anche per me». Abbassò la testa per cercare gli occhi della figlia. «Possiamo ancora salvare tutto».
Lei, le gambe penzoloni sulla sedia che ondeggiavano avanti e indietro, non la guardò. Infilzò cinque maccheroni nella forchetta e se li portò alla bocca, la spalancò al massimo e cominciò a masticare. Rumorosamente.
Quando fu il suo turno il parroco calò lo sguardo ai piedi, le spiegò che la sua era un’anima smarrita da ricondurre al gregge. Parlò poco, il volto rosso per l’imbarazzo, poi sollevò gli occhi al cielo, segnandosi il petto e la fronte, domandando perdono al Superiore.
Dopo poco li raggiunse il padre seguito dallo sposo. Si asciugò la fronte trascinando un fazzoletto bianco da una parte all’altra della testa. «Basta che dice sì», tuonò, «tu fai domande e lei dice sì».
La sposa afferrò la caraffa con entrambe le mani e buttò la testa all’indietro per bere. Delle gocce nere di Coca Cola le rimasero appiccicate sulle labbra, le cancellò trascinandosele sulla manica dell’abito.
Il sacerdote scosse la testa ma l’uomo si fece insistente e lui tentò. «Desideri tu unirti in matrimonio con il qui presente…», cominciò.
«Peperoni ripieni!» urlò lei al cameriere.
«Ha detto sì!» esclamò il padre.
«Ma no che non lo ha fatto!» protestò il prete.
«Ma sì, ha fatto segno con testa!» urlò lo sposo. «Riprova!»
Tentarono ancora un paio di volte, ma lei rimase in silenzio. Dispose tutte le fette di pane sul tavolo e le ricoprì d’olio, aggiunse una spolverata di sale e se le ficcò in bocca, una dietro l’altra.
Andarono avanti così per ore. Per ore le vennero consegnate pietanze e domande.
Per ore la bambina le mandò giù senza dire una parola.
Fuori alla tavola calda le persone si erano moltiplicate e assistevano sconcertate.
Il caso era diventato di interesse nazionale quando delle femministe si erano radunate oltre la vetrata del locale vestite da spose sbandierando cartelli e megafoni per invocare la libertà di autodeterminazione. Accanto a loro si erano schierate delle associazioni per la tutela dei diritti dell’infanzia che minacciavano di rimanere fuori alla tavola calda finché la bambina non fosse stata liberata ed era spuntato qualche politico a cianciare di immigrazione.
Dopo poco era comparsa anche una telecamera e l’inviata di una trasmissione pomeridiana ci si era piazzata davanti per raccogliere dichiarazioni.
Il cameriere, dopo aver sistemato i capelli studiandosi nel riflesso della macchina del caffè, uscì dal locale indossando la sua espressione più angosciata e si infilò sotto la luce bianchissima del neon.
«Povera creatura», cominciò, «Come possono farlo».
L’inviata ascoltò con aria contrita l’elenco delle pietanze che l’uomo aveva consegnato alla bambina, annuendo con gravità alle parole della presentatrice in studio.
Per un paio d’ore le telecamere succhiarono ogni attimo di quella storia di là dal vetro. Poi cominciò a piovere e la giornalista ficcò il microfono in borsa e corse in macchina, i manifestanti se ne andarono e se ne andarono anche i curiosi che si erano radunati nel corso della giornata.
Se ne andarono infine anche gli invitati lasciando la bambina con il padre nel locale e la madre ad attendere fuori.
Niccolò rimase nella tavola calda. A tentare di indovinare l’epilogo di quella storia mentre ammetteva a sé stesso che lui di domande da fare non ne aveva.
Il padre della sposa si piazzò davanti alla figlia e sbuffò.
«Tu sei disonore per noi!» gridò afferrandola per un braccio. «Che pensi di fare mangiando così?».
La bambina si liberò dalla presa con un gesto secco ed energico. Di quella che aveva domandato dei würstel con patatine al cameriere con voce sommessa – rifletté Niccolò ̶ non rimaneva che lo scheletro. Ogni cosa, in lei, pareva trasformata.
Sotto lo sguardo attonito del padre raccolse lentamente tutto lo spezzatino che aveva nel piatto con le mani e se lo ficcò in bocca. Con le fauci sgranate masticò lasciando colare pezzi di carne e sugo sul vestito, gli occhi iniettati di lucidità.
«Smettila!» tuonò il padre. «Smetti immediatamente! Quel corpo mi serve!»
La bambina si alzò piano e dalla bocca lasciò cadere il cibo lungo tutto il corpo. Strappò lo strascico dell’abito con le mani e guardò l’uomo negli occhi.
«No», rispose, «questo corpo appartiene a me».