L’uomo è sempre uguale a sé stesso: Crimes of the Future di David Cronenberg
Il passato fa spesso dei giri immensi: viene superato ma inevitabilmente è destinato a tornare d’attualità, fondendosi con il presente. Crimes of the Future di David Cronenberg è l’ennesima dimostrazione di tutto ciò. Il regista canadese, alla soglia degli ottant’anni, ritorna ai suoi mondi immaginifici passati, regalando ai suoi spettatori uno squarcio interessante e mai retorico sul futuro.
Il film – che riprende il nome del suo secondo lungometraggio – è ambientato in un mondo post (o pre) industriale in cui la tecnologia digitale è totalmente assente. L’essere umano, per ragioni che lo spettatore può solo intuire, è incorso in una mutazione genetica: risulta totalmente incapace di avvertire il dolore. La circostanza si configura come un’opportunità per alcuni e un pericolo per altri. L’azzeramento della soglia del dolore offre l’occasione di sperimentare sensazioni estreme che non tardano a sostituirsi al tradizionale piacere corporeo. «Surgery is the new sex», la chirurgia è il nuovo sesso, dice una delle protagoniste.
Questa è la ragione per cui alcuni performer di arte concettuale, come Caprice (Léa Seydoux) e Saul Tenser (Viggo Mortensen), decidono di sfruttare al meglio la nuova e inaspettata evoluzione del corpo umano. Tramite processi chimici, Caprice crea nel corpo di Tenser nuovi organi che poi asporta in pubblico durante performance artistiche. Il bisturi è il pennello di Caprice, il suo partner è la tela. Questo è in definitiva uno dei pochi punti in comune con il lungometraggio del 1970. Tenser, in realtà, non è solo un artista ma anche un infiltrato dell’unità governativa “Nuovo Buoncostume”. Lo scopo di tale polizia, che ricorda vagamente (e ironicamente) usi e abitudini di tempi andati, è quello di tatuare, registrare e schedare i neo-organi, per evitare mutazioni genetiche in grado di mettere a repentaglio il precario ordine costituito. Tra gli investigatori anche la funzionaria Timlin (Kristen Stewart), allo stesso tempo attratta e repulsa dalle neo-formazioni.
Viggo Mortensen, in una forma attoriale magnifica, ha quindi il compito – tramite l’ignara Caprice – di trovare e scovare i “sovversivi biologici”. L’occasione arriva presto: alla coppia di artisti viene proposto di praticare una performance-autopsia sul corpo di un bambino ucciso dalla madre. Il padre, uno sbandato che si taglia e taglia gli altri in strada (il parallelo post-apocalittico del consumo di eroina?), insiste affinché la performance si faccia. Il corpo del bambino è speciale, e tutto il mondo dovrà saperlo, dice lui. Nella prima sequenza del film, poco prima dell’infanticidio, il bimbo è intento a mangiare un secchio della spazzatura in plastica, sotto gli occhi tormentati della madre. L’unicità del bimbo, naturalmente tutta biologica, è la chiave di volta per comprendere il film e risolvere l’intreccio.
Cronenberg riesce (seppur con qualche sbavatura) a realizzare più film in uno. Crimes of the Future è un film di fantascienza, un thriller politico, un noir classico, un horror che non sfocia mai nel gore. O più semplicemente è un film post-moderno che non accetta rigide classificazioni di genere. La forza del ventiduesimo lungometraggio del regista è quella di attingere con successo dai temi che hanno caratterizzato tutta la sua cinematografia. Si ha l’impressione che l’intento dell’autore canadese sia quello di far convergere diversi macroargomenti trasversali affrontati in oltre cinquant’anni di carriera. C’è infatti il tema della visione e della sua illusorietà (Videodrome in primis), delle bodymod evolutive (Brood, Il pasto nudo), dell’uso ludico del corpo umano (eXistenZ, con cui condivide anche joystick e bioporte), aberrazioni psicologiche e sessuali (Crash), e infine l’asetticità umana comune a molti dei suoi ultimi lavori (Maps to the Stars, Cosmopolis).
Cronenberg propone allo spettatore contemporaneo, immerso in un mondo instabile e prossimo al collasso, una summa delle sue ossessioni che – a suo tempo – sono state ossessioni di un’intera generazione. Il riproporle intatte, anche a quarant’anni dalla rivoluzione stilistica di Videodrome, non svilisce la loro forza caustica. Il regista tiene molto a questo concetto: non a caso gli orologi inquadrati sono fermi, i protagonisti parlano tramite i primi telefoni cellulari, posseggono la TV a tubo catodico e utilizzano macchine fotografiche reflex. Tramite un’estetica analogica, quindi, si riescono a fronteggiare molti dei temi che hanno accompagnato l’umano in ogni epoca storica: menzogna, egoismo, autodistruzione, creatività, brutalità del potere, dissenso.
Il messaggio finale di Crimes of the Future è quindi inevitabilmente conservatore. L’uomo è pur sempre un animale che si evolve, cambia, muta in senso difensivo. Le sue vicende, comprese quelle artificialmente indotte, sono orientate alla conservazione della specie, all’adattamento al peggiore dei mondi possibili, compreso quello che ha creato con le proprie mani.
È forse questo il grandissimo punto di forza del film: affrontare questo tema, complesso e controverso, con un’onestà intellettuale impressionante e una lungimiranza verso il futuro, talvolta intrisa di una flebile speranza.
Naturalmente, come la scuola dei grandi maestri degli anni Ottanta insegna, Crimes of the Future è un film concettuale, ma soprattutto visuale. Gran parte del fascino del lungometraggio è nella sua estetica plumbea, nella fotografia fredda e notturna, nei rumori, nella deumanizzazione dei protagonisti a livello espressivo e cinetico, nella musica elettronica minimalista, nella location al crocevia fra vecchio e nuovo (il film è girato ad Atene), ma soprattutto nella realizzazione dei macchinari. L’ottimo lavoro degli artisti e degli scenografi permette di vedere in scena macchine avanzatissime dal design primitivo: un cortocircuito formale che nasconde una lezione sostanziale. L’essere umano riesce a entrare in contatto viscerale solo con strumenti fatti di carne e sangue: la plastica e l’acciaio sono dei residui storici di un’epoca sbagliata.
Il finale del film è affidato alla fenomenale coppia Seydoux-Mortensen: lo spettatore diventa per una frazione di secondo voyeur e testimone del futuro incipiente. Chi guarda, però, non può utilizzare (metaforicamente) i propri occhi, ma deve accontentarsi delle riprese di una videocamera portatile. Lo spettatore è diventato finalmente testimone, palingeneticamente pronto per l’avvenire. Ancora una volta Cronenberg ci ha permesso di esplorare l’altra parte dello schermo.