Il fascino perturbante di criXion di Antonio Perrone

CriXion è un enigma che seduce, avvincendo il lettore nella rete intricata dell’inconscio del protagonista: Luciano Criscuolo, promettente professore e giovane nevrotico di una sfortunata famiglia del Pallonetto di Santa Lucia, cerca di affrancarsi dalla hybris atavica, nefasta e persecutoria, che ha marchiato la sua storia parentale.
Ci riuscirà o meno?
Quali sono le radici del suo malessere esistenziale?
Quali ancora le ragioni che lo tormentano quando viene assalito dal malaugurante vaticinio di una zingara che gli suggerisce di scappare lontano da Napoli?
Sin dalla prima pagina il lettore di criXon è rapito in un vortice di interrogativi, che non può fare a meno di porsi; e la possibilità che le sue domande possano restare insolute, siano disattese o trovino un felice appagamento nella chiusa della storia, costituisce la forza centripeta che alimenta il fascino di questo libro.
L’impressione che se ne ricava è che Antonio Perrone voglia instaurare con il lettore un dialogo che è gioco mentale e sfida ermeneutica, a mo’ di un giallo, tendendo viva la curiosità investigante di chi legge attraverso una serie di indizi disseminati ad hoc tra le pagine.
I titoli che incorniciano i capitoli, benché siano mòniti riferibili anche dal narratore a se stesso in un originale flusso di coscienza, sembrano talvolta chiamarti in causa, consegnandoti un pezzo per la ricostruzione del puzzle.
Espressioni categoriche come “Devi fare attenzione”; “Lo vedi?” “Mo’ fermati un attimo”, “Aspetta”, “Mo’ ti spiego meglio”; “Stai giocando anche tu”; “Hai capito?”; “Mo tuorne areto” strizzano l’occhio al lettore, come a volergli suggerire un ordine sotteso all’evidente disordine in cui si aggroviglia la malattia mentale del protagonista.
CriXion è un viaggio immersivo nella nevrosi di Luciano fino al disvelamento del suo trauma, e in quanto tale si nutre di un caos che trova espressione a più livelli: dalla ripetizione delle formule e delle azioni agli incroci temporali; dall’alternarsi di prosa, immagini e poesia al pastiche linguistico.
Tutto è dosato con cura e nulla è accessorio.
Così l’iterazione di espressioni, gesti e citazioni potrebbe palesare nella struttura del testo il sintomo del disturbo ossessivo convulsivo del protagonista, narratore autodiegetico che cerca nella scrittura di sé un possibile agente di catarsi o di espiazione.
Le sovrapposizioni temporali sembrano l’indice di una percezione agostiniana del tempo, come durata interiore dove passato e presente si compenetrano fino a fondersi in distensio animi. Ciò lo si può dedurre sia nella macro cornice dei dialoghi che Luciano intrattiene con il terapeuta di famiglia, il dottor. Alessandro Barilli, sia da uno dei tanti titoli incisivi che afferma perentoriamente “Il tempo non esiste”.
Le immagini, poste a chiusura dei capitoli, ne condensano il senso, offrendone un correlativo figurativo altamente indiziario, supportato dalle epigrafi in greco.
Allo stesso modo le poesie, che troviamo in punti strategici della trama, risultano veicoli di emblematici significanti.
La prosa invece mescola italiano, napoletano, latino, greco e inglese, concertando i vari registri linguistici nella simbolica koinè di un inconscio incipiente.
È proprio l’emersione dell’inconscio e del suo rimosso, costantemente minata dalle censure apposte dall’Io, a determinare il disordine apparente percepibile dal lettore, il quale potrebbe disorientarsi nel groviglio degli intrecci se non fosse guidato dagli indizi e dalle allusioni puntualmente offerte.
Ci si rende conto così che la struttura del libro è organizzata in un grande chiasmo, di cui d’altra parte è segnale la “X“ che campeggia nella scritta criXion: c’è una specularità tra la prima e la seconda parte del racconto, tra l’allontanamento e il ritorno al luogo primigenio, il grande fantasma in cui si agglutinano passato e presente e che non vogliamo qui svelare.
Questa tensione sembra trovare la sua naturale espressione nei sogni che perseguitano Luciano.
I fenomeni onirici, assurdi e spaventosi, senonché oggetto di indagine nei discorsi con il terapeuta, custodiscono la traccia mnestica che dipanerà il fitto groviglio della trama solo alla fine del libro.
A quel punto il lettore potrà scoprire, o forse no, se le proprie deduzioni sono giuste o errate (e ringraziamo Antonio Perrone per questo).
Napoli è lo sfondo di questa storia. Quella del centro storico e di Santa Lucia; la Napoli delle piccole piazze, dei borghi e del mare fuori.
È una Napoli plumbea, cristallizzata in un’ancestrale melanconia, uguale a se stessa, immutata, nella sua prismatica natura, allo scorrere del tempo e delle stagioni della memoria. Nel suo groviglio di vicoli e vasci, nel suo latente infernale, la città assolve la duplice funzione di agente e proiezione degli stati d’animo di Luciano.
La connotazione geografica è pregnante al punto che il protagonista condivide il suo nome con il quartiere di nascita, Santa Lucia, i cui abitanti sono i luciani raccontati da Matilde Serao. Uno stigma doloroso, quello del nomen omen, che ha un ruolo preciso nel marasma della sua psiche.
L’onomastica di CriXion appare allora come un ulteriore tassello che aiuta a ricomporre il puzzle complesso di una trama ben congeniata, che nella struttura ricorda un po’ Gadda e nella scrittura Sanguineti.
Grazie al suggerimento dell’autore, sappiamo ad esempio che gli amici, con cui Luciano si intrattiene una notte in un gioco di società, sono gli acronimi degli psicofarmaci che definiscono la malattia mentale del protagonista: Antonio Sero, Lorenzo De Palma, Giuseppe Diaz (soprannominato Pepman) e Anna Farli stanno per Serotonina, Delorazepam, Diazepam, Anafranil.
Se agli amici simbolici è affidata la cura della patologia psichica, ad altri nomi va associata la resilienza in cui si arrocca l’Io di Luciano. Questi vanno ricercati nei classici.
Non si può fare a meno di osservare che il passo del De rerum natura di Lucrezio, con cui il professore mette alla prova i suoi studenti liceali, irridendo il bigottismo dei salesiani, abbia un valore strumentale. La pericolosità delle superstizioni sembra un valido dissuasore alla stessa fobia, che attanaglia in quei giorni Luciano, di essere segnato da una maledizione. È un esorcismo, un’esortazione che il personaggio potrebbe rivolgere anche a se stesso perché si liberi delle sue segrete paure tendendo al “nos exaequat victoria caelo”.
I libri dell’adolescenza, che spiccano nei ricordi onirici, serbano poi le chiare coordinate dei moti interiori che stanno accompagnando il giovane uomo nel travaglio della vita adulta. Le Confessiones di Sant’Agostino e il De brevitate vitae di Seneca sembrano confermare l’idea che ci troviamo dinanzi al racconto di un’anima, mentre nelle sue angosce, acutizzate dalle turbe della mente, cerca il proprio posto nel mondo senza voler vanificare il tempo che ha a propria disposizione.
Riuscirà nell’intento? Certo dovrà prima fare i conti con i suoi fantasmi.
In questa ricerca di sé, l’innamoramento di Luciano sembra agire come una forza lenitiva, riparando le ferite che hanno contraddistinto la sua storia affettiva attraverso una laica koinonia. E ancora una volta è proprio nella lingua del classico, quella di Seneca, che questa funzione viene corroborata.
Il frequente ricorso all’interno della storia al simbolismo delle api ci persuade infine alla percezione di un ultimo rinvio classicista, quello alla bugonia, che potrebbe infondere la speranza di una possibile rinascita o di un nuovo epilogo, diverso per il nostro protagonista da quello della sua storia familiare. Capire se questo possa avvenire o meno è l’enigma che conquista il lettore, affascinato da quella vischiosa filigrana di simboli che infonde a criXion una certa malìa.