Da nobile a maggiordomo: il talento dimenticato di Erich von Stroheim

Quando i produttori cinematografici newyorkesi si trasferirono in California per sfuggire a tribunali e creditori, Erich von Stroheim era già lì. Emigrato dall’Austria in cerca di fortuna assiste – non è dato sapere quanto consapevolmente – alla nascita del cinema. Fra i primi stuntman della storia del cinema, si rompe una costola durante le riprese di Birth of a Nation (D.W Griffith, 1915). Non esita, inoltre, a millantare presunte origini nobiliari e cavalleresche asburgiche pur di recitare da caratterista come perfido ufficiale germanico. Quando gli studios furono alla ricerca di attori e registi del Vecchio Continente, il sedicente conte era ancora una volta al posto giusto. I suoi primi film da regista furono un relativo successo commerciale, ma la sua poetica autoriale ben poco soddisfaceva i produttori, alla ricerca di film basati su storie semplici e banali ottimismi. Durante i primi anni ’20 non esisteva regola o convenzione che il regista austriaco non avesse ripetutamente infranto. Nonostante i produttori furono convinti di poter ammaestrare il suo genio per finalità commerciali, Stroheim non smise mai di odiare lo star system e le regole del cosiddetto cinema classico. La sua crudeltà artistica, maniacalità e cupezza narrativa fecero il resto. In Rapacità (Greed, 1924) il regista utilizza continuamente violente e disturbanti metafore visive, una profondità di campo esasperata, e attori realmente stremati dalla sete per demolire il mito della ricchezza e dell’accumulo di denaro. Come nei più noti film di C.T Dreyer, non mancano impietosi primi piani in cui a dominare sono collera, urla, sudore, sporcizia, sangue, desiderio sessuale. Stroheim chiedeva decisamente troppo agli spettatori che – da lì a qualche anno – avrebbero sperimentato tale miseria nella vita reale. Il mito di Stroheim come gallina dalle uova d’oro tramonta velocemente: Queen Kelly (1929) fu l’ultimo suo film da regista, venendo licenziato a metà dell’opera dalla diva Gloria Swanson, produttrice e protagonista. Come scrisse Abel Gance, altro pioniere del cinema, Stroheim fu messo “nell’impossibilità di nuocere, costretto per vivere a fare l’attore agli ordini di registi mediocri”.
La sua seconda vita artistica, in analogia a quella di tanti altri reietti di Hollywood, si esaurisce nell’interpretare spietati ufficiali nazisti e scienziati pazzi in filmetti di propaganda. Sono pochi i cineasti che riconoscono in lui il grande talento inespresso. Fra questi ultimi c’è Anthony Mann che, in The Great Flamarion (1945), gli affida il ruolo per certi versi autobiografico di cecchino ossessionato dalla perfezione, successivamente tradito da una donna senza scrupoli.
Nel frattempo la paranoia da guerra fredda, l’influenza dei neorealisti italiani e l’affermarsi di nuovi talenti fanno crollare tutte le certezze della vecchia Hollywood. Alle commedie con lieto fine si sostituiscono film amari, complessi, a cavallo fra più generi. Grandi autori come Frank Capra, John Ford ed Elia Kazan iniziano a prediligere insicurezza e instabilità nella scrittura dei film. Hollywood è quindi pronta, al principio degli anni 50, ad analizzare criticamente il suo passato. È proprio un connazionale di Stroheim, il grande Billy Wilder, a firmare il cinico ed ironico Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950). Il film, nomen omen, è – secondo il critico Sandro Bernardi – una discesa agli inferi fra i sedotti e abbandonati divi dell’Hollywood che fu. La pellicola è infatti incentrata su un giovane sceneggiatore che incontra per puro caso Norma Desmond (Gloria Swanson), una diva del muto caduta in disgrazia con l’avvento del sonoro, e il suo maggiordomo Max von Mayerling (il nostro Stroheim). La Swanson, che interpreta un ruolo tristemente autobiografico, impone al giovane di revisionare la sceneggiatura che sancirà il suo ritorno in scena dopo anni. Il protagonista si immerge quindi nei fasti decadenti del cinema muto: auto d’epoca, feste danzanti, inquadrature divistiche e partite a carte con un attempato Buster Keaton. Il plot twist rivela, poi, come Mayerling-Stroheim non sia altro che l’ex regista della Swanson, anch’egli dimenticato, scelto come maggiordomo per via della sua maniacalità e devozione. Viale del tramonto fece imbestialire i produttori, fra cui il potente e temuto Louis B. Mayer, anche per l’incredibile autobiografismo dei personaggi. Il già citato Queen Kelly fu davvero l’ultimo film da regista di Stroheim e uno degli ultimi da diva per Gloria Swanson. La descrizione dello studio system e del dispotismo dei produttori era inoltre fin troppo verosimile. Nonostante il capo della MGM predisse insuccesso e sventura per la pellicola, Viale del tramonto si rivelò un incredibile successo economico, venendo riconosciuto fra i film più belli di sempre. La Hollywood degli anni d’oro era definitivamente crollata e gli studios si avviavano verso un lento ma sicuro declino. Stroheim, scomparso pochi anni dopo, ebbe la sua ultima rivincita.