Dove andrò
Scena buia. Voce nel buio.
L’ho pensata. L’ho rimossa. L’ho attesa.
È arrivata.
Un cono di luce illumina un uomo disteso in un letto d’ospedale.
Dobbiamo darci un tono di immortalità per sopportare la finitudine. Fingere che non accadrà mai e se accadrà, sarà in un tempo inimmaginabile, astratto quindi sterilizzato, depotenziato, inesistente. Non si può tollerare il pensiero che non saremo, che il mondo sarà vuoto di noi e noi vuoti di vita, assenti, perduti, spariti. Certo la mente furtiva ci torna, come si torna a una certezza rimandata, inevitabile. Essere inseguiti da un’ombra nella notte desolata e repentinamente voltarsi per coglierla in flagrante o per rassicurarsi che sia sparita. La mente torna all’ombra dei suoi stessi pensieri come un bambino che guarda dalla finestra malinconico. Bisogna presto distogliere lo sguardo, se vogliamo poter continuare a vivere dobbiamo distrarre noi stessi, altrimenti è la disperazione senza rimedio. Mi perdo in queste elucubrazioni come se adesso non mi trovassi qui, proprio qui. Ancora tento un estremo inganno. Non posso non barare con l’abisso. Posso solo cercare di rimandarlo, di rimuoverlo, di scacciarlo via, come se non esistesse. Posso solo pensare. I pensieri, incatenati dal marchio originario, sono un argine e un’evasione fittizia, bisogna portarli nel labirinto e sperare che si smarriscano a lungo, poiché sempre là, da lei, torneranno. Torneranno all’annientamento che li ha generati e che li richiama a sé, inevitabilmente torneranno, come aquiloni che spiccano il volo legati a terra da una corda nodosa.
Un tempo avevo le azioni, un tempo sì che poteva essere diverso, un tempo potevo difendermi, come gli altri, come tutti. Annegare me stesso nei fatti, nella frenesia ottusa e lieve dei gesti, sotterrarmi nelle sabbie mobili delle occupazioni, degli impegni inderogabili che si mangiano la vita ma silenziosamente, senza clamori, senza questo silenzio agghiacciante che circonda i pensieri nudi davanti a se stessi, in un cono di luce fredda in mezzo al buio senza fine, come attori di uno spettacolo disertato. Un tempo potevo muovermi. Avevo il narcotico affabulatorio delle cose, degli eventi, delle relazioni decisive o fittizie, intorno avevo la confusione del mondo e potevo partecipare lamentoso, svogliato, concentrato al turbine effimero della storia. Mi muovevo. Camminavo. Potevo spostarmi e cambiare così lo scenario, l’esile trama, la ripetitiva routine, potevo partecipare all’inconcludenza elevata a rango di importanza, al dinamismo sociale che si investe da solo di una dignità che non ha, pur di scappare dal pensiero di lei, una fuga di massa, un esodo esistenziale della specie umana dall’abisso che è all’origine e che sarà alla fine, un pensiero. Mi affannavo, mi dannavo, mi sbattevo sul niente: servizi, appuntamenti, impegni, visite, incontri, scadenze, fatiche, lavori, file, prassi, azioni, cose che per la messinscena generale erano inderogabili, fondamentali, irrinunciabili. Quanto mi appaiono ora nella loro intrinseca, essenziale, necessaria vanità. Ah potessi riaverla questa psicotropa inutilità! Questo dolce, alienato, ineffabile vagare nel mondo, nella realtà fittizia e costruita, in mezzo agli oggetti e ai volti, così senza tempo, per tutto il tempo, senza senso, a imprecare, a smadonnare, a essere scontenti, a protestare senza far nulla, a maledire il sistema e la stupidità degli uomini, potessi rigettarmi adesso in quel morbido perire. Consumarsi senza esserne consapevoli, agitarsi per agitarsi, correre, sentire l’ansia, credere di spezzarsi, non considerarsi capaci delle pressioni e degli obblighi, sperare che domani cambierà. Domani, domani, domani.
Adesso sono qui. Resterò qui. E resterò qui per poco. Dove andrò?
Siamo finito nel finito. La coscienza ci inganna, ci illude, ci blandisce purché la vita continui. Dobbiamo essere ignari, guai se avessimo l’assoluta consapevolezza di ciò che siamo, dobbiamo dimenticare si, obliare il già stato e noi stessi. La lucidità definitiva è insopportabile. La memoria è un raggio di luce riflesso sull’acqua. La coscienza divaga, rimanda, dissimula. Non possiamo conoscere la verità. La vita non può sopportarla.
Piangere, piangere sì. Diluvia attraverso di me tutto il dolore del mondo. Tutto l’essere piange le mie lacrime. Non piango per me, di me, non mi commisero, sento una fitta che suppura nell’animo che è stata piantata lì dall’origine. Sento un dolore ancestrale, orfano di storia, universale e indeterminato, un dolore che vibra dalle fibre dell’esistere, in cui i viventi galleggiano, smanacciando bracciate inconsulte da sopravvissuti. Singhiozzi afoni strozzati nelle mascelle, respinti nel profondo come saliva, interminabili, atemporali, masticati, allucinati, muti. Un pianto infantile e adulto, lacrime come mare, senza confini, antiche come la notte, al di là dell’altrove conosciuto, dal fondo nero dell’inizio. Piango il mio dolore, la mia fine, la mia impossibilità di fuga, la mia inesistente redenzione, piango chi mi sopravvivrà piangendo per me, coloro che stanno sprofondando come me, chi non ha ricevuto mai giustizia e ha portato la vita come una pena nonostante fosse innocente.