È stagione di forasacchi ed è già inverno: Forasacchi di Cristina Pasqua
Lagmanovich – tra i primi teorici del genere – quando parlava di microfinzione, diceva di disporre solo le parole reputate insostituibili, le uniche che vale la pena scrivere, ancora prima Quiroga, nelle sue linee guida per il racconto breve, scriveva di non indugiare in inutili aggettivi riempitivi. Entrambi sembravano essere concordi su una cosa: che, a volte, la scrittura comporta una rinuncia. Stando alle strutture morbide e distese della straordinaria prima raccolta di Cristina Pasqua pubblicata dalla perugina pièdimosca edizioni, Fughe, una di quelle che si fanno spazio lentamente e sedimentano senza fare rumore, nel narrare storie che rendono labile il confine tra il presente e il ricordo e gli spazi non solo cornici, ma regioni porose e vive, da visitare ogni tanto come uniche custodi di frasi la cui eco, in esse e nella mente del lettore, risuonerà nel tempo, la curiosità era tanta di vedere come si sarebbe mossa in uno spazio contenuto, quale sarebbe stata la sua, di rinuncia.
Nelle centoventi, poco più, pagine di cui si compone il testo in questione, in realtà, Cristina Pasqua sembra venire meno a questo passaggio, perché se è vero che da un lato qualcosa non lo si scrive, è anche vero che quel che non si scrive resta attorno: lì, forse, risiede l’essenza del tutto, lì è dove si trova la vita dei personaggi – come ha fatto intendere anche Chimal in 83 romanzi – nel sopra e nel sotto, che si schiantano su e dilatano in un centro che coincide con quella linearità che si cerca di mantenere: è la vertigine del non detto, il precipizio aperto dal silenzio, dove si nasconde l’imprevisto. L’autrice, a suo modo, lo dice meglio: è «stagione di forasacchi ed è già inverno».
Forasacchi, uscito a maggio per pièdimosca edizioni come nono volume della collana glossa, “dirottata” da Carlo Sperduti e interamente dedicata alle prose brevissime, è un libro in cui cambiano i punti di vista come cambiano le stagioni, in quei luoghi che – nonostante la luce del Sole, della Luna – non avranno luce mai, tra dighe, muretti che perdono pezzi, nei paesini dove non c’è né mare né piscina e gli abitanti tengono la porta sempre aperta, dove qualche volta, inaspettatamente, si muore, mentre chi legge si lascia trasportare da una narrazione quasi prettamente dialogica, da quelle espressioni – come più o meno scriveva Toni Morrison nel suo Amatissima – dolci e bizzarre, la cui bellezza si cela nelle tante e piccole incomprensioni che creano.
A Vicolo Corto, per esempio, ci sono bambine che si ritrovano, nei noiosi pomeriggi estivi, a giocare a Sfide: si pesca una lettera, si pensa a una parola, a partire da essa la sfida da compiere. Si scambiano astucci, si entra nella casa di una nonnina per prendere il gelato dalla credenza, poi c’è il povero Tonio, che va in giro sempre con la fionda, a cui si tirano giù i pantaloni, per accertarsi che quanto visto sia uguale alla foto sul libro di scienze, mentre alcuni giorni le campane suonano a morto e i nani da giardino sembrano piangere. Sono gli anni delle corse a scapicollo, dei giochi che non si hanno ma si inventano, dell’inevitabile confronto con i grandi e i loro silenzi, della violenza dell’infanzia che quei silenzi li buca: Vale, Virna, bucano con il racconto delle cose nell’unica maniera in cui possono capirle, nell’unico linguaggio, che appartiene solo a loro, in cui riescono a parlarne, mentre scoprono il corpo maschile, la morte, corrono a cercare lumache. Quanto vi è attorno a loro è una potenziale preda delle loro piccole ricerche. Il punto è che tante volte si è prede senza saperlo, di assassini o semplicemente della vita: là, dove cala la notte, spezzata dai colori accesi di fiori che schiudono dopo il tramonto, non sai se e quando essa ti sbarrerà il passo in una corsa sostenuta in un già precario equilibrio. A Spurgo, tra i manifesti di donne appesi sulle pareti della baracca dello sfascio e i bar, una banda di balordi, Pellecchia, il Pinscher e Baldini tra gli altri, ammazzano il tempo, perché tanto da là non se ne va nessuno, quindi tanto vale.
L’unica cosa che si può fare, nei testi di Cristina Pasqua, è rimanere aggrappati al presente: né passato, né futuro, tra i suoi personaggi mai è contemplata una rivincita; non vi è la ricerca di una qualche soluzione, né un tentativo di riconciliazione con la realtà. Quelle incontrate tra le pagine sono esistenze comuni, che non impersonano ruoli, né archetipi. L’autrice attinge da esperienze quotidiane, costruendo la diegesi a partire da elementi semplici e riconoscibili, in cui si inserisce talvolta l’elemento perturbante che spinge la narrazione a corteggiare delle tinte più oscure; di ritorno un’esperienza della lingua a tratti urticante, che gioca con associazioni particolari, con il ricorso a un vernacolo, come in Fughe, mai abbellito, né calcato, quando prestato ai dialoghi parete che arriva a filtrare anche il male e la violenza, presenti all’interno di queste prose, che vanno liberi tra le strade di città e paesi; quest’ultima frase riprende non esattamente le parole di Salazar sulla narrativa di una delle più grandi autrici messicane, Ámparo Dávila, che ci riportano a quello che è l’elemento più importante di cui tenere conto in Forasacchi, ovvero la relazione che questi protagonisti stabiliscono con i luoghi: le sterpaglie, le distese e i sentieri deserti, le viuzze si affiancano al ritratto di un’esperienza umana intenta a ritagliarsi gli spazi che può, a godere di quel poco fatto di scherzi, giochi, battute, delle piccole cose che riesce a cogliere lungo un percorso su cui non ha propriamente controllo e anche questo, Pasqua, lo ha lasciato dire a tre cose semplici, minime, che si ritrovano nei titoli con cui le sezioni si aprono, tre piantine, che nei testi non compaiono mai: i forasacchi che bucano la pelle, le ortiche che crescono senza che nessuno le abbia piantate, la gramigna, esile, ma come poche cose dura da estirpare.
«Si alza il vento, bisogna tentare di vivere», dico io pescando qualcosa di vecchio da scaffale di scuola media. Ho i capelli appiccicati alla fronte, le mani incrostate sul cofano, non sposta la folata di scirocco», mentre la vita, si sa, ci va con lo spillo, con la sua banale imprevedibilità, senza chiedere il permesso, lasciando cicatrici che non se ne vanno più, che col tempo smettono pure di fare male.