È tardi recensione savarese

Attendo, attendo… né a me giungon mai!: l’attesa in È tardi! di Eduardo Savarese (Wojtek Edizioni)

Si attende l’amore come si attende il giorno nelle notti insonni: con un’impazienza che si acquieta solo nel gioco di luci che precede l’alba. Il tempo dell’attesa trascorre con inesauribile lentezza, con un’inquietudine intrisa di dolce sofferenza mentre tutti i pensieri, centinaia, velocissimi provano a convergere in uno solo che annulli gli altri: se si sta attendendo qualcosa, qualcosa arriverà. Sbucherà dall’angolo della strada, giungerà su una nave dal mare, si fermerà sulla soglia della porta chiedendo se si può. Non sarà buio per sempre. Poiché l’attesa trattiene il tempo come quando di notte non si riesce a dormire e non è possibile intuire che ore siano dal modo in cui la luce accarezza gli oggetti e le pareti. È un tempo fermo quello dell’attesa, che paralizza anche chi attende, che lo esaspera e lo fa soffrire, lo rende sconfortato e inetto. Ma è anche un tempo pieno di desiderio e di speranza: preannuncia una gioia ritrovata e persa nelle distrazioni della vita umana, nel suo “giro inquieto” che non si arresta mai.
È tardi!, ultimo libro di Eduardo Savarese per Wojtek edizioni, ci presenta l’attesa in forma di donna e di musica, intrecciando al racconto delle opere la storia del teatro lirico, con illuminanti riferimenti letterari e musicali e analessi di vita privata dell’autore e della sua personale attesa. Sono stata guidata con delicatezza verso epoche lontane, sono entrata in teatri europei di cui lo stile di scrittura mi ha fatto respirare l’atmosfera; ho guardato il mare dalle isole greche, ho visitato la villa di Giuseppe Verdi; mi è parso di ascoltare voci di donna intonare struggenti canti d’amore. Sono entrata in punta di piedi, timorosa e impreparata, in tutto il dolore del cuore umano, che attende, soffre e spera; ha paura, scappa e ritorna, per scoprire poi che tutto questo è mio, è nostro, ci appartiene. Le donne di Eduardo Savarese sono sette: Violetta, Cio-Cio-San, Carmen, Rosina, Lucia, Elektra, Norma. Non è difficile immaginarle: tra le tante interpretazioni, il volto che ha saputo meglio rappresentarle è quello della bellissima Maria Callas, mai uguale a sé stessa. E poi, in ordine sparso, Susanna, Suzuki, Kate, Annina, Adalgisa, donne complici del dolore o empatiche. Fuori dalla scena, Emma Bovary – che nel romanzo assiste alla rappresentazione della nostra Lucia di Lammermoor con il marito Charles, a Rouen –, la spietata Medea – di cui Elektra prova a ripetere il matricidio desistendo un istante prima –, Dalida e la sua Diciotto anni a fare da cornice al bacio tra la Contessa (Rosina) e Cherubino. Donne dell’arte per niente lontane, se non solo apparentemente, le une dalle altre. Le donne del teatro lirico guardano il vuoto davanti a sé in costante attesa di un vento che cambi di direzione la loro vita in pausa; sono donne sedotte e abbandonate, ferite, colpevoli di aver ceduto all’inganno d’amore. Eppure ancora resistono come rocce, sono inscalfibili al tempo che scivola e non porta novità, hanno la speranza nell’animo e la sofferenza disegnata sul volto. Ci si chiede perché. Se l’abbandono è sinonimo di un addio, perché attendere chi ci ha fatto del male? Nell’universo creato da Savarese vi è tutta la contraddizione del cuore umano e l’amore è la stella attorno alla quale queste donne gravitano. E queste maestre dell’attesa, durante la lettura sono state mie amiche e sorelle, poiché un dolore ci accomuna: la forza del nostro amore. Donne inarrestabili e tenaci, capaci di morire e uccidere in nome dell’amore, di arrendersi non all’amore ma per l’amore, che in questo libro e nella vita, come Maria Callas mai uguale a sé stessa, ha mille forme ma resta sempre unico. L’amore come attesa, rinuncia, morte. Con la fievole speranza che non possa essere solo questo, che possa esistere un tempo d’amore che non preveda il dolore.

Per la libertà di Carmen e il trionfo di Norma, per la vita di Violetta, per la morte di Cio-Cio-San, per il cuore in tumulto di Rosina, per il dolore abbacinante di Lucia, per la solitudine di Elektra. Per tutte noi rinnegate e felici.

“Je ne te parle pas, je chante pour moi-même!…
Et je pense! Il n’est pas défendu de penser.”