Eccidio (les mots que je t’ai lassées)

Angèle,
quando sei triste, tu non piangi. Il volto ti si svuota di ogni espressione, chi ti osserva sa riconoscere, la sopraffazione di ciò che è fuori su ciò che è dentro, un segnale di pericolo. Forse per me piangerai, ma nel silenzio della tua stanza chiusa, quando nessuno potrà farti domande, nessuno potrà guardare il tuo viso che si accartoccia in una smorfia quasi infantile, come un bambino che voglia allontanare da sé ciò che gli fa paura semplicemente chiudendo gli occhi. O forse non succederà, forse te ne farai una ragione prima di quanto io mi aspetti. Forse ti sottovaluto, Angèle, così cara al mio cuore e così ignota. Qualsiasi sia la tua reazione, so che mi odierai. Non saprei chiederti di non farlo.
Mia cara, intelligente, sensibile, acuta, curiosa, ingenua, giovane Angèle. Spero che non sarai tu a trovarmi. Sarebbe troppo traumatico per te, e imbarazzante per me, che sia tu a toccare per prima la mia pelle fredda e incancrenita. E cosa faresti di quel tempo passato da sola, vicino a questa versione esanime di me? Anche la morte mi concederebbe di affacciarmi sulla tua testa bruna per rinfacciarmi le decisioni sbagliate che ho preso, senza alcun preavviso. Me ne sono andato all’improvviso, ho preso la mia stessa vita e l’ho spezzata, e ti ho negato lo spazio di impedirmelo.
Ma vedi, Angèle, il problema è proprio questo. La Terra non mi è stata lieve quando l’abitavo, non mi sono mai aspettato che lo fosse quando avessi deciso di lasciarmela alle spalle. Se avessi guardato dritto dentro ai tuoi occhi, Angèle, allora non avrei saputo andarmene. E se avessi deciso di vederti un’ultima volta, tu l’avresti capito, e mi avresti ricordato che c’erano cose per cui valeva la pena restare – cose, ovviamente, di cui non mi sarebbe interessato nulla; ma il tuo solo entusiasmo sarebbe bastato a farmi credere che ci fosse ancora una vita da vivere, una che non pesasse così grave sulla mia schiena ricurva, una in cui la tua sola presenza e la mia sola presenza sarebbero bastate a ricostruire le ali tarpate da tutto ciò che non sei tu e non sono io, lontana da tutto ciò che ci renda più uomini e meno umani.
Non ti ho tradito, Angèle, e non ti ho abbandonata. Ti ho fatto un dono.
Se fossi rimasto, la mia noia sarebbe esistita al prezzo della tua felicità, e non me lo sarei perdonato. Non ti chiedo di capirmi, non te l’ho mai chiesto. E non perché non te ne creda capace, al contrario: ti credo così arguta, che so che tu l’avresti fatto, e ti saresti rovinata con me, e ti avrei trascinata in un abisso. Perché tu sei così, Angèle. Tu vivi intensamente. Vivi con ogni centimetro del tuo corpo, con ogni involuzione del tuo cervello, con ogni cellula del tuo cuore, e non conosci felicità, ma euforia, non conosci tristezza, ma depressione. Non mi sarei perdonato la contaminazione dei tuoi occhi chiari con il buio dei miei, il furto della luce, della letizia con cui la purezza della tua anima si scontra con la corruzione di questo mondo e lo rende vivibile, accettabile, il migliore dei mondi possibili. Forse, in un’altra realtà, c’è uno spazio senza compromessi per noi due. Tuttavia, questo è ciò che abbiamo.
Ma, ti prego, quando quest’odio ruggente nei miei confronti sarà passato, cerca di scendere a compromessi con la mia assenza. Ho sofferto. Tanto. Tremendamente. Il cuore mi ardeva ogni notte, come se qualcuno gli avesse dato fuoco, e i miei polmoni non rispondevano alle mie incessanti richieste di asilo, mi spingevano in un limbo di imperdonabili peccati, e non dormivo mai. Tranne che per qualche minuto di tranquillità in cui mi illudevo di trovare riposo. E il pensiero di pesare sul tuo decollo, di essere il sole sulle ali di Icaro, Angèle, mi rendeva miserabile. Però sia chiaro: non è questo mio disperato amore per te ad avermi ucciso, non credere per un secondo che sia così. Angèle, tu sei stata l’ossigeno che mi ha permesso di guardare ancora per un po’ la superficie increspata dell’acqua dalla profondità del mare. Sei stata il passante che ha teso una corda, ma chiederti di tirarla a costo di cadere tu stessa, questo non l’avrei potuto fare.
Questo mondo è corrotto, Angèle, ma tu non lo sei. Hai in te il fuoco di una vita semplice, genuina e sincera: vivila. Non ti curare di chi, dall’alto della piramide, minerà alla tua serenità: scuoti dalle spalle i loro sputi e cerca di andare avanti, un giorno alla volta. Preoccupati di un marito – o una moglie, se vorrai – e dei figli, delle loro marachelle e delle febbri d’inverno, delle torte di compleanno e dei regali di Natale. Prega, e salva la tua anima – io non l’ho fatto. Io, Angèle, ero destinato alla grandezza. Non ci sarebbero stati mariti, né mogli, figli, case calde da curare e famiglie da portare avanti. Per il tuo triste Cyrano non c’era che la maledetta incudine della grandezza, che gravava sulla testa e sul cuore più di quanto lui stesso abbia potuto sopportare. Il mio è un dono, affinché tu possa vivere e morire nella tranquillità di una vita normale. Non cercare il tumulto, il rumore, e la passione: cerca la serenità. La grandezza viene con un prezzo più grande di ciò che immaginiamo, e il pensiero che tu possa soccombere mi squarcia il petto più dell’idea che io stesso l’abbia già, irrimediabilmente, fatto.
Questo mondo è corrotto, ma tu chiudi gli occhi. E quando vorrai aprirli, capirai che la mia non era vita, che il mio non è egoismo. È forse vita guardarsi intorno e realizzare di essere l’ultima mano a trattenere la colomba nella cassa? È forse egoismo andar via per lasciare spazio a ciò che può crescere? E dove troverei le ragioni del mio essere? Negli occhi incupiti di un amico con cui non so più condividermi? O forse nel riflesso infedele della mia immagine nei tuoi? È forse vita sostenere meramente i ritmi del proprio cuore per paura che cessi di battere, mentre segretamente si spera nel suo tradimento?
Questo mondo contiene in sé ogni ragione per decidere di morire, e tu vivi, invece. Se la mia è una sterile scelta di codardia e dissenso, allora tu divincolati da questa morsa letale. Sii assordante ed introvabile, diventa un rumore insopportabile senza radici, mettili in difficoltà con l’anonimato della tua disambizione. Preserva la tua pace, e vivi. Non ti chiedo di anestetizzarti, ma di indurirti. Di non essere malleabile, di non abbandonarti al principio di autorità solo perché credi che se l’abnegazione ha tinto il tuo cuore di un rosso puro, allora deve essere così anche per gli altri: se aprissi i loro petti, non troveresti che un tumore nero che batte, con un’avidità di vita diversa dalla tua – raccapricciante, stomachevole, putrido.
E non ti chiedo di non odiarmi, perché non ho mai saputo chiederti niente. Ti chiedo di continuare a camminare in avanti, e di conservare questo mio dono nel tuo cuore luccicante, sulla mensola più nascosta, accanto al ricordo di me avvolto in un sano velo di polvere e oblio. Dimenticami.
Tuo, anche nell’aldilà.