Prose

Erisittone

Ho vissuto nella credenza che le mie notti ed i miei giorni fossero universi scissi, pensando che i raggi della luna non potessero ghermirmi nel dominio del sole. I tremori erano parentesi notturne in dissonanza con la mia vita alla luce, che a prova della loro esistenza lasciavano solo lunghi echi di malinconia che io stesso faticavo a ritrovare. Due me esistevano, come una figura manichea dalla doppia faccia che gira la testa con il ruotare della terra; le mie tenebre avevano un orario, quello della solitudine, e l’immobilità del corpo vanificava ogni possibile sforzo contro il nulla che è la verità. Il giorno dissipava il mio altro fantoccio, mi restituiva alla vita e gettava oblio momentaneo sulla lotta trascorsa e destinata a rinnovarsi. Capitava qualche volta che me ne ricordassi, quando in cielo una luna sbiadita persisteva nel suo tormento, irrispettosa delle regole del giorno. Pensavo di rinascere nella crisalide delle mie lenzuola gettate a terra, ma non era così. Non sono mai riuscito a sfuggire alla notte. Sveglio, ho sempre avuto il bisogno dell’estrema mobilità dopo l’estrema paralisi, e allora correvo a destra e sinistra fra le mie idee. Nuove, sempre di nuove. Fame, fame, fame. Fame di novità, di cambiamento, di ricerca. La frenesia si impadroniva di me ed io la consideravo me stesso e non un barlume di tenebre assopito nel cuore. Ma la mia fame non si saziava, la mia ferita non si sanava. Mi riempivo pur continuando ad essere vuoto, saltavo da una passione all’altra per non sentire la mancanza di tonfo delle cose che gettavo nel crepaccio che ho nel petto. Nella mia mente aleggiava un’agghiacciante assenza di senso. E allora soffrivo del bisogno ossessivo dell’altro, e lo sognavo, lo sognavo. “Altro” è una parola magnifica e traditrice. “Altro” è ciò che quando è smette di essere. “Altro” è cibo effimero. Ma più lo immaginavo, più lo ingurgitavo e più ne avevo bisogno. Solo due cose avevano peso, quelle che avevo perduto e quelle che ancora dovevo avere, perché lì solo poteva annidarsi la completezza che disperavo. Il presente era una fonte di vita opaca, l’unica a sostenermi davvero, ma io ero troppo distratto dai simulacri per poterlo sentire. Ho passato i miei giorni credendo di danzare valzer con i fantasmi, ma ero solo un ragazzo ferito che da fermo sentiva scorrere il sangue sulle gambe. Ho costruito me stesso su un impero di sabbia in cui è perennemente notte e la mia immagine ora è quella di un afflitto dopo la scomparsa del suo miraggio. E siedo qui da solo, con un presente che ho perduto ed un passato ed un futuro scomparsi, e guardo le ceneri del mio regno. Ma per la prima volta sono veramente io, e non un burattino dei miei terrori. Mi guardo il corpo e sono ancora tutto intero.
Mi sono svegliato prima di divorarmi.