Finisterre

«Stanotte, stanotte lo rubiamo. Ci vediamo alle 3:30 alla fermata della metro, anzi no, facciamo così, senti a me. Visto che siamo già insieme (che bella combinazione!) non torniamo a casa, ceniamo da qualche parte e poi, quando per strada non c’è più un’anima, ce lo andiamo a rubare».
«Il cartello?»
«Il cartello!» rispose Patrizio. «Prima che lo rimuovano, dato che ormai è inutile».
Si riferiva a un vecchio, scassato cartello stradale blu. Piantato in un punto qualsiasi della trafficatissima via Appia Nuova, segnalava con lettere mezze scolorite che per di là, guardando non verso il quartiere San Giovanni ma dall’altra parte, dunque verso i monti Volsci (piuttosto bassi, levigati e per nulla pretenziosi), ecco, per di là si arrivava a Terracina.
«Questo cartello», aveva detto Sara tempo addietro, uscendo da scuola, «avrà l’età dei miei genitori. Una volta, probabilmente, era qui che finiva il mondo, a Roma. Da questo punto o tornavi indietro per il centro oppure tiravi dritto fino a Terracina, e in mezzo solo campagna e qualche paesello».
Era arrugginito e ammaccato, il tempo non era stato clemente con lui. Pure, c’era qualcosa di commovente nella mesta serietà con cui proseguiva nel suo lavoro di segnale stradale anche dopo tutti quegli anni.
«È bellissimo, vero?» chiese Sara. «Accidenti, se lo è!».
Per dieci minuti almeno rimasero a fissarlo, dicendosi ora di avere nostalgia per una città che era stata e non esisteva più, ora di volerla cercare in qualche archivio. Chiediamo a tuo zio Gianni, lui di sicuro due o tre foto le conserva ancora. E poi spiegandosi l’un l’altro cosa provassero per il segnale malconcio: affetto, devozione e altri sentimenti d’amicizia.
«Guardalo» si spinse a dire Sara: «Sembra mio nonno quando si metteva la bombetta e il paltò per andare a fare la spesa accanto al cinema Maestoso. Odiava il bancomat e per pagare vuotava tutto il borsellino degli spicci sul nastro della cassa. Credimi, però, era sempre vestito bene».
«Che uomo!».
«Uomo d’altri tempi, lui i cambiamenti li detestava. Non si è mai abituato a questo quartiere, nemmeno dopo che hanno buttato giù le baracche dietro al bar e tutti hanno iniziato a farsi le case, case vere. Vuoi sapere cosa mi diceva sempre?».
«Cosa?».
«Che i fascisti non li avrebbe perdonati mai per due motivi. Primo: per avergli ammazzato il fratello, sai, zio Ninetto, te ne ho parlato, no? Secondo: per averlo sfollato dal centro e deportato – usava proprio questa parola – in periferia. La sua baracca se la costruì tutta da solo in una notte».
Continuò: «Qui non c’era niente – mi diceva nonno – a parte campi, capanni e immigrati meridionali. Questa era Finisterre, Patrì» concluse, guardando ancora una volta il piccolo, malinconico, cartello solitario.
«Quindi stanotte lo rubiamo», disse Patrizio qualche mese dopo, scuole chiuse, esami di maturità archiviati e tutti i professori, compresi loro due, finalmente in vacanza. «Non lo so, mi sembra un’idea strana».
«Lo è».
Sara si osservò nel grande specchio di un bar: pelle diafana, capelli azzeccati in fronte, peli sotto le ascelle, mammelle mosce, no reggipetto. Guardò Patrizio: taglio di capelli geometrico, pizzetto rifinito con forbicine e rasoio a mano Gillette, camicia, bretelle. Era un estimatore del Risorgimento, si richiamava nel modo di vestire ai suoi moti storici preferiti. Strana coppia di amici – pensò Sara – quella che si dà appuntamento a fine luglio (Roma: 41 gradi all’ombra, 37% di umidità) indossando abiti sciatti (lei) o di ispirazione ottocentesca (lui) per disquisire delle sorti di un cartello stradale. Ma quel che andava fatto, andava fatto. Disse di sì.
«Va bene, stanotte».
Attesero con impazienza che per strada non ci fosse nessuno. Ma sull’Appia passa sempre qualcuno, quindi convennero che le sparute macchine delle due di notte potessero essere sufficientemente innocue rispetto alla loro missione.
Lui tirò fuori dallo zaino una massiccia chiave inglese. «Quella dove l’hai presa?»
«Prima, a casa, quando sono salito per usare il bagno». «Sei un genio!» esclamò la ragazza.
«Puoi ben dirlo!» rispose Patrizio, iniziando ad armeggiare con l’attrezzo intorno al cartello.
«Lasciami fare» ordinò Sara, spingendolo via con una vigorosa spallata. «Avrei dovuto portare un seghetto».
«Non dire scemenze, piuttosto prendimi in braccio, proviamo dall’alto!» Tentarono, caracollarono sul marciapiede, lasciarono perdere.
«Siamo davvero imbranati» si lamentò lei.
«Non ce la faremo mai» chiosò lui, ancora ansimando per la gran fatica.
«Senti, Patrì, s’è fatta notte fonda e io ho di nuovo fame. Kebab e cornetto ad Arco di Travertino?».
«Si può fare» acconsentì l’amico.
«La vuoi la verità? Sono felice che non lo abbiamo rubato, per me è bello solo qui. A casa mia o tua non sarebbe mai la stessa cosa».
Questo e molto altro si dissero, camminando in direzione sud dopo essersi lasciati alle spalle il malinconico, malmesso, malandato, arrugginito e anche un po’ comico cartello blu per Terracina.