Fotografia

C’è una scala a tre gradini. Un uomo, in cima, compie un passo.
Il primo gradino in discesa è il più complesso: è lì che va data la spinta maggiore per scendere il secondo e poi il terzo. L’uomo fa questo pensiero ogni volta che compie i suoi tre passi in discesa per avviarsi al cancello della scuola e chiuderlo, alle otto e trenta in punto. I bambini, dentro, sono tutti disposti tra i loro banchi, nelle aule. L’uomo, fuori, chiude il cancello. I bambini, dentro, già stanchi ed assonnati, fanno fatica a seguire ciò che dice la maestra. L’uomo, fuori, mentre chiude il cancello, pensa di essere sveglio dalle sei e quarantacinque. Una fotografia incorniciata, riposta sul comò, cade per via di un imbranato movimento del gatto: a causa del rumore del vetro rotto, l’uomo si sveglia. La caffettiera emette un sibilo: sono le sette ed un quarto. Il caffè sta uscendo. Il suo bollire si traduce in un suono caldo, fuso ai primi rumori del giorno, provenienti dai balconi spalancati. L’uomo si alza e spegne il fuoco. C’è un telefono che squilla. Un lungo trillo ripetuto. L’uomo si volta, ingannato da quel suono e guarda, finalmente, la fotografia. Guarda il gatto: lo guarda per non guardare di nuovo a terra. Il telefono continua a squillare e sembra che l’uomo quasi non se ne accorga. Poi, finalmente, compie un passo. Sotto quel passo c’è il peso della memoria che soffoca col peso del presente: i vetri scricchiolano, le schegge gli penetrano nella suola della scarpa con la stessa violenza con cui il ricordo punge continuamente il presente per rendersi presente lui stesso, ma di un presente impossibile, che fa ammalare.
Pronto.
Pronto, Mauro? Buongiorno. Sapevo che l’avrei trovata già in piedi.
Buongiorno. Con chi parlo?
Sì, mi scusi, a volte do per scontato che mi si riconosca. Sono la maestra Nilde.
Non si preoccupi, maestra Nilde. Tutti crediamo di essere riconoscibili finché qualcuno, all’improvviso, non ci riconosce più. Ha bisogno di qualcosa?
A dire la verità sì. Se non le è di disturbo, vorrei chiederle di tenere mia figlia Elena ad ora di pranzo: ho una riunione con le altre maestre e nessuno che possa venirla a prendere. Se potesse essere così gentile… La bambina è autonoma e tranquilla. Le prometto che non le darà fastidio.
Sarà fatto, maestra Nilde. Non si preoccupi. Se smettono di darci fastidio anche i bambini siamo finiti.
La ringrazio, Mauro. Sono in debito con lei.
Sono le otto. L’uomo esce. Ha raccolto la fotografia riponendola, senza guardarla, rovesciata com’era, in una busta di cartone che ha infilato poi nella borsa da lavoro. Ha raccolto i vetri e li ha gettati nel cestino. L’ha fatto, dice, per il gatto. Se non ci fosse stato il gatto li avrebbe lasciati lì. Così dice.
L’uomo esce. Attraversa la strada ed arriva al cancello della scuola. Tira fuori dalla borsa un grosso mazzo di chiavi ed apre.
C’è una scala a tre gradini. L’uomo, sulla loro cima, compie un passo.
Il primo gradino in discesa è il più complesso: è lì che va data la spinta maggiore per scendere il secondo e poi il terzo. Sono le tredici. Dopo il terzo gradino, l’uomo si avvia al gabbiotto dove consuma solitamente il pranzo. Il sole batte forte sul ferro verde. Sembra che gli alberi non siano in grado di fargli ombra. Quel giorno l’uomo non ha con sé nulla da mangiare. Tira fuori dalla tasca del pantalone lo stesso grosso mazzo di chiavi con cui ha aperto il cancello e cerca con pazienza e poi nervosamente la chiave giusta, che sembra nascondersi tra le altre.
Buon pomeriggio, signor Mauro.
La ricerca dell’uomo si ferma.
Sono Elena.
L’uomo gira la testa verso la voce lieve e calma della bambina. I lunghi capelli biondi le incorniciano gli occhi castani, ancora sporchi di sonno. Tende la mano paffuta verso l’uomo, lentamente. Nel palmo tiene una piccola chiave.
Forse è questa la chiave, signor Mauro.
Sì, ti ringrazio.
L’uomo apre il gabbiotto. La bambina entra, guardando per terra. L’uomo, allora, spolvera velocemente uno sgabello col fazzoletto per farla accomodare e lei, mettendosi a sedere in silenzio, scarta il suo pranzo con cura, mescolandolo col cucchiaio.
Ci sono molte cose qui, come mai?
Lo sguardo della bambina è fisso sul cibo, come qualche minuto prima era fisso in terra. L’uomo, sorpreso, tenta di formulare una risposta. Si chiede in che momento la bambina si sia resa conto dell’accumulo di oggetti nel gabbiotto: gli sembrava il suo sguardo non fosse andato oltre il pavimento ed il cibo.
Come hai trovato la chiave?
Era per terra.
Guardi spesso per terra?
Sì. Guardo i passi che faccio, per non inciampare. Così mi hanno insegnato. A volte ci trovo degli oggetti. Così ho trovato la chiave.
Ma non guardi solo per terra, immagino.
No. Guardo anche ai lati.
Non mangi?
Allora, perché ci sono tutte queste cose? E perché le tiene tutte qui dentro?
A casa mia non ho molto spazio.
Lei abita nella casa qui di fronte. Io la mattina la vedo, quando arriva.
Sì, è vero. Come fai a vedermi?
La vedo perché aspetto che lei apra il cancello, mentre sono in auto, con mia madre. La maestra Nilde.
Capisco.
Allora, perché dice di non avere spazio se la sua casa è così grande?
Chi ti dice che casa mia sia così grande, Elena?
Ecco, vede signor Mauro, capita a volte che io arrivi con mia madre fuori la scuola molto presto. Ed in quelle volte riesco a vederla dal vetro della macchina, oltre la sua finestra. Mi è capitato di vederla passare da una finestra all’altra. Nella prima finestra aveva la barba, nella seconda no. Quindi mi è venuto naturale pensare che ci fosse un’altra stanza, il bagno, dove lei aveva fatto la barba, e che questa stanza non si vedesse dal lato che affaccia sulla scuola, e che dunque affacciasse da un altro lato. Queste tre stanze renderebbero la sua casa già abbastanza grande per contenere queste cose. Ma lei le tiene qui, ammassate e piene di polvere. Lei non vuole rispondermi, l’ho capito, ma io vorrei sapere solo perché le tiene qui, in questo gabbiotto, che apre una sola volta al giorno per pranzare e mai più.
Perché le voglio dimenticare.
Come?
E perché voglio che loro mi dimentichino.
E perché le vuole dimenticare?
Perché hanno smesso di riconoscermi.
Ma come fa a dimenticarle se li vede ogni giorno?
L’uomo non risponde. Si accascia a sua volta su uno sgabello. La bambina vede la busta di cartone che contiene la fotografia.
Quella non è impolverata.
L’ho portata stamattina. Non sapevo che farmene, allora l’ho portata qui.
Non ha detto che qui ci porta le cose che vuole dimenticare?
Sì. Allora l’ho portata qui perché voglio dimenticarla.
Che cos’è?
Non importa cosa sia. Comunque, la maestra Nilde, cioè, tua madre, mi aveva assicurato tu fossi una bambina quieta, che non dà fastidio.
Ha ragione. Ma lei le ha risposto che se la smettono di darci fastidio anche i bambini siamo finiti.
L’uomo sorride. La bambina si alza, prende la busta di cartone e l’uomo fa uno scatto in avanti, come a volerla fermare, ma si lascia vincere dallo sguardo curioso della bambina e si ritrae.
La bambina dice: è una fotografia.
Sì. Questa mattina è caduta. Si è rotto il vetro.
La bambina dice: è una donna.
Sì. Era una donna.
Era una donna? In che senso?
Nel senso che era e non è più.
La bambina assume un’espressione perplessa. Poi dice: Nel senso che non c’è più?
Nel senso che non c’è più, ma ha smesso di esserci molto prima di non esserci più.
L’uomo tenta di chiudere l’argomento. Chiede alla bambina di posare la fotografia e lei lo fa, senza battere ciglio. Silenzio: la bambina riprende a mescolare col cucchiaio il suo cibo. L’uomo comincia a mettere in fila dei fogli per riempire quel silenzio col rumore bianco della carta. Poi la bambina lo guarda.
E vi conoscevate?
Sì, ci conoscevamo. Poi lei ha smesso.
Di conoscerla?
Sì. Ha smesso di conoscermi, ha smesso di conoscerci tutti. Anche la casa, la scuola.
Ma com’è possibile?
A volte accade.
Non capisco. Come si può smettere di conoscere le cose che si conoscono?
L’uomo gira il viso verso la porta del gabbiotto e socchiude gli occhi, come quando si prova un dolore che non si vuol guardare, come a voler fermare le parole. Parla così, con gli occhi semichiusi e il viso nascosto. Dice:
Non lo so. Io sono sempre stato distratto, mentre lei era in grado di riconoscere il rumore delle mie scarpe per le scale e mi apriva la porta prima che bussassi.
L’uomo si ferma.
La bambina attende, in silenzio.
Quando arrivava la posta riconosceva le buste mie e le buste sue, anche se erano uguali. Oppure se arrivava una telefonata lei rispondeva “Mauro” ogni volta che ero io, perché sapeva riconoscere il trillo del telefono mio che diceva essere diverso da quello degli altri.
L’uomo riapre gli occhi come se fosse stato in apnea durante tutto il suo discorso, poi guarda la bambina. Dice:
Un giorno non mi ha più riconosciuto. Ed ora io l’ho portata qui perché non la voglio riconoscere più, la voglio dimenticare.
La bambina guarda per terra. Torna a guardare l’uomo, che continua:
Un giorno mi chiese l’ora due volte nell’arco di cinque minuti. Una settimana dopo mi preparò la colazione alle tre di notte, svegliandomi per premurarsi che non facessi tardi a lavoro. Una settimana dopo ancora si lavò i denti con la schiuma da barba e disse che era sbadata, che il tubetto era identico a quello del dentifricio. Ma non è mai stata sbadata ed io lo sapevo.
L’uomo tenta un sorriso che la bambina non ricambia. Chiede, invece: E poi?
L’uomo risponde: Smise di aprire la porta, di dividere la posta e di rispondere al telefono. E quando rispondeva, diceva: Anna? Perché la sorella così si chiamava, Anna.
E lei non le ha mai detto di non essere Anna, ma Mauro?
Sì. Una volta le dissi proprio così: Non sono Anna, sono Mauro.
E lei cosa le rispose?
Mi rispose: Ah, mi scusi, forse ho sbagliato numero. Ma avevo telefonato io. Quel giorno ho capito che aveva iniziato a non riconoscermi, a dimenticarmi.
La bambina sta in silenzio, ancora. Lo guarda. Poi sorride, illuminata.
Allora lei la vuole dimenticare per dispetto?
L’uomo sorride. Dice: Diciamo di sì, diciamo che la voglio dimenticare per dispetto.
Fuori si sentono gli schiamazzi degli altri bambini accompagnati dal suono della campanella. La bambina scende dallo sgabello e si avvicina all’uomo. Gli prende la mano e lo conduce al vetro del gabbiotto. Guarda fuori, in silenzio. L’uomo si lascia guidare da lei e guarda fuori a sua volta, in silenzio, insieme alla bambina. Poi dice:
La voglio dimenticare da solo. Come voglio dimenticare da solo tutti gli oggetti che vedi. Li ho portati qui perché voglio fare da me, perché niente a parte la mia volontà me li faccia dimenticare.
Si sentono dei passi di donna. La bambina dice: Sono i passi di mia madre. L’uomo abbassa lo sguardo e sorride. Lascia la mano della bambina.
Bussano al vetro.
Mauro, buon pomeriggio, la ringrazio, spero che Elena sia stata buona e non l’abbia infastidita.
Buon pomeriggio maestra Nilde, non si preoccupi: è una bambina tranquilla, silenziosa. Non mi ha dato alcun fastidio.
Ne sono contenta. Allora la ringrazio ancora. Sono in debito con lei.
Assolutamente, maestra Nilde. Quando desidera sono a disposizione. Arrivederci.
La donna fruga nella borsa in cerca delle chiavi dell’auto, mentre s’incammina verso l’uscita. La bambina fa due passi per seguire la madre, poi si ferma.
Guarda l’uomo.
Anche l’uomo la guarda sullo stipite del gabbiotto. Attende.
La bambina apre la mano destra e gli sorride: nel palmo trattiene, tra le luci calde della controra, una piccola chiave.