Freddo sodo sonoro

Una scala di marmo, un palazzone da ricchi.
Dove siamo? Che facciamo?
Sono soldi, sono sacrifici.
Le piace chiamarli sacrifici, tutto è un sacrificio. A volte cita mio padre. Io e tuo padre, i sacrifici per te. Chiamarlo nella frase ingrandisce l’ingenza, l’urgenza, le spese a rimedio di. Difetti e malfatture.
Gli occhiali, le ripetizioni di matematica, i vestiti, i tanti vestiti per le mie misure fuori misura, da cavalla.
Cosa ci facciamo qui?
Lei tira su col naso senza scopo, ritmica di affanno.
Adesso dopo te lo spiego.
É la sua maniera di svicolare le premesse. Grammatiche sregolate e contraddizioni, sottacere, cattedrali di non detti: così alle cose trovo l’introduzione da sola, diventerà un talento col tempo.
Ora l’ingresso si apre, un corridoio che sembra scavato dai lombrichi. Si aspetta in una sala con poltrone giganti; sulla fodera piccoli buchi richiamano un gioco di rovistii lasciato incompleto da qualcuno prima di noi. Ripasso i bordi, poi sotto ai lembi sollevati, le dita libere nella stoffa più interna della poltrona. Spannocchio adagio il tessuto, irrompo nella gommapiuma rovistando l’imbottitura. Sfondare, frullare, affondare nella mollica di poliuretano. Cercare un nido. Insistere nelle lacerazioni, le falangi a falce fino all’osso di compensato. A ripetizione, verso l’alto, ansiti di bolle nel boccione. Sembra dirmi Va’, torna a casa bambina. Lo stesso sulle pareti, le stampe di sorrisi ingabbiati nell’argento. Stringati, costretti, dominati dalla ferraglia.
Adesso cosa facciamo?
Le sfugge un segnale, forse preparatorio. Te li sei spazzolati i denti? chiede mia madre.
Sì.
Per bene col dentifricio?
Sì, dico io.
Un’ondina perfetta sullo spazzolino. Bianca, venata di smeraldo. La schiuma vivificata dalle frizioni sugli incisivi, lievito liquido da ingoiare, obbedire alla deglutizione per liberarsene.
Quando la signora mascherata ci chiama entriamo insieme. L’aria quasi ci stringe in una stanza illividita. Solo l’uomo, anche lui mascherato, resiste alla prepotenza delle luci acide. Parlano di me, le magagne illustrate sulla radiografia. Mi riparo da un presentimento contando la fila di ferri apparecchiati come posate. Alcuni sigillati nella plastica su un vassoio, lì davanti un’astronave bianca. Ovunque nelle vetrinette bocche divaricate in ostaggio. Non urlano, non dicono.
Hai paura?
No.
Monta sulla poltrona, dice l’uomo.
La donna mascherata mi allestisce con la mollezza di un polpo scongelato, gli occhi alla finestra, in silenzio.
La fresa. Il divaricatore. Lo scavino.
Hai paura?
No, dico.
Le frese troncoconiche, sonde a filo spinato, distanziatori dei condotti.
L’uomo si porta l’anima morta sulla groppa. Dietro le lenti occhi di latta, piccoli quanto piombini da pescatore. Cosa vuole? Gli interessa la mia lingua, per mangiarsela? Cucinarla?
Mamma mi ha promesso la colazione col cappuccino.
Vero, mamma?
Non la vedo più da sdraiata.
Il tiranervi, il morsetto, la lima.
L’uomo mi dice di aprire.
Apri di più.
Percorre le arcate, tasta le gengive, un armeggiare profondo nella cavità umida che lo sento, si protegge salivando. La donna la aspira a più riprese, l’uomo le lascia precedenza esibendo un sadico gioco di luccichii sul mio naso, gli strumenti a mezz’aria. Se ne compiace. Starà pensando che sono un uccello, che i riflessi mi spaventano quanto ai piccioni i lustrini argentati appesi ai balconi, spauracchi fatti con involucri delle uova di Pasqua.
Clorprocaina, tre microgrammi, ordina al polpo.
Ora ti buco, stai ferma. Stai ferma. Hai paura?
Formiche rosse. Un formicaio fermenta sotto le guance, il palato, le labbra. Per poco ancora pulsanti poi si spengono, ne percepisco la morte grigia. Lembi di gomma, margini senza possesso. Un avanzo di anestesia sfugge alla gengiva. Devo sputare e non posso. L’uomo mi trattiene coricata. Ancora, obbedire alla deglutizione: amara, giù per la voragine.
Ecco, fammi entrare.
Appena nata somigliava a un bottone, nonna lo raccontava sempre, era un piacere per le comari il bocciolo che avevo per bocca. Ne usciranno baci timidi poi più bagnati fino ad altre esplorazioni. Lo sento dal fondo, una voce lo suggerisce con anticipo: sì, baci timidi poi più bagnati fino a.
Un serbatoio di parole sigillate per spavento, per gioia. A volte strillate per spavento, per gioia.
Ma l’uomo adesso è nei canali radicolari, sfila la polpa. Insiste fino alla radice, fino ai giacimenti di memoria nei cunicoli dentali: le prime violente suzioni, assaggi di terra e di muco, capelli di bambola, pappe dense, prove di voce, manciate di coriandoli capitati per sbaglio.
Quanti anni hai?
Nove. Un verso di bestia stanata. Nove anni.
Mai l’età è abbastanza per fermare le invasioni.
Non quando per una smorfia sulle carote la testa finisce nel piatto. Mangia! Altrimenti…
Non quando sarò grande e lo prenderò in bocca, lo fanno nei film col bollino rosso. In bocca, e buttano giù. Obbedire alla deglutizione.
Mamma, mamma dove sei?
L’escavatore, l’otturatore, la pinza.
Non la lingua, non i denti, l’uomo vuole la voce. Le corde su cui balla la voce, ecco ora me le strappa, ne farà un legaccio. Una fune per calarsi, oltrepassare, trovare la sacralità di carne. Il cuore, lì agganciato, freddo-sodo-sonoro che pare ripieno di vespe elettriche. Nelle camere ventricolari, tra gli atrii dell’organo la primordiale cadenza, un richiamo per l’uomo. Eccolo, si fa vicino con l’imprudenza di chi lo vorrebbe accarezzare, il nidocuore, di chi lo crede già suo. Il nidocuore. Come se per portarlo via gli bastasse disinnescare il groviglio di tubi a cui è allacciato.
Non ci riesce.
Il cuore ha peduncoli resistenti.
Slanci di moine, campanellini, fiori e perle di miele. Cuore vieni con me.
Sangue d’angelo, luccichii. Faremo. Vivremo. Andremo.
Usi futurali.
E altri ninnoli, nenie, nettari dolci.
Forse pensa a una pignatta per andargli più vicino. Lo prende a randellate, lo batte, lo trafigge con. A forza di picchiarlo il cuore dà. Intanto fa il verso di un animale-senza-verso, le vongole per esempio, e battebattebattebatte delle botte sue e quelle subite. In silenzio, sotto silenzio, tira avanti il meccanismo.
Poi la mezza luce di un lampo. I fili del tram sibilano magie elettriche al mattino.
Calmati Cuore. Ora calmati.
Il palmo concavo sul petto, in mezzo ai primi bottoni il cotone conserva pulsazioni oniriche.
Calci di bestie selvatiche chiuse nel torace.