Grande studio su Baudelaire di Felipe Polleri: una recensione
«Recentemente venne condotto davanti ai nostri tribunali un disgraziato che aveva la fronte marcata con un insolito e singolare tatuaggio: Senza fortuna! Aveva così sopra gli occhi l’etichetta della propria esistenza, come un libro il proprio titolo, e il processo dimostrò che la bizzarra scritta era spietatamente vera. Nella storia della letteratura si trovano analoghi destini, vere e proprie dannazioni, – uomini che portano la parola scarogna scritta in caratteri misteriosi tra le rughe sinuose della fronte. L’angelo cieco dell’espiazione si è impossessato di loro e li fustiga con tutte le sue forze ad edificazione degli altri Inutilmente la loro esistenza manifesta talento, virtù, amabilità; la Società riserba loro un particolare anatema, e li accusa delle infermità che la sua stessa persecuzione ha loro attribuito».
Questo un estratto dell’edizione Sugar del 1967, tradotta da Jacini, del libro Tutti i racconti di Edgar Allan Poe, «un Poe maudit isolato nella cultura americana dell’epoca»; quest’ultima una frase di Charles Baudelaire, che sul controverso autore angloamericano scrisse – agli inizi dell’Ottocento – tre saggi; come ben si legge «oggi forse non tutti potranno condividere il ritratto di Poe dipinto da Baudelaire […] resta però il fatto che queste pagine [C. Baudelaire, Edgar Allan Poe, La vita e le opere] ebbero il merito di servire da trait d’union tra Poe e la cultura europea, e che l’amore di Baudelaire per il personaggio conferisce al saggio una penetrazione e una finezza d’analisi fuori dal comune».
Non a caso, non sarebbero mancate penne avventurose, che avrebbero cercato di risalire al pretesto che inizialmente spinse lo scrittore francese, che andava ben più in là della saggistica fine a se stessa, a indagare sull’opera di un altro scrittore, anch’egli – come lui – «accerchiato, odioso e odiato» in vita e – deve essere un vizio della nostra società – onorato da morto.
È il 2024 – un secolo di storie e Storia trascorso, un secolo di letterature – e per la collana di narrativa straniera Orso Nero (in una nuova veste grafica, nel caso specifico capace di catturare un momento importantissimo del testo) edita Wojtek Edizioni, c’è un autore uruguaiano, che con questo significativo incipit – «Ho sognato che scrivevo un romanzo odioso e odiato: la legge mi aveva condannato a morte. Avevo già visto la ghigliottina, un’altra porta nera, al centro della piazza. Ero spaventato, è ovvio; eppure amavo ogni parola del mio mostruoso romanzo intitolato Baudelaire» – torna a parlare di questo tipo di solitudine.
Lui è Felipe Polleri, nato a Montevideo, Uruguay, nel 1953; in Italia, già apparso con il suo Germania, Germania! e Le poltrone appassite (entrambi i volumi pubblicati dalle Edizioni Arcoiris) nella magistrale traduzione di Loris Tassi, che lo riporta in Italia con uno dei suoi testi più radicali, Grande studio su Baudelaire (Wojtek Edizioni, 2024).
Grande studio su Baudelaire è un romanzo amaro, è un romanzo scritto qui – il qui baudelairiano, ovvero l’esilio da un là felice. «Da qui […] da questo posto infinitamente lontano dall’inferno, e ancora di più dal purgatorio e dal paradiso, non possiamo nemmeno sognare di avvicinarci (anche solo di qualche millimetro) a quei luoghi dove la speranza è ancora possibile».
Il testo è diviso in sezioni, la prima intitolata “Lo stelo di un fiore”. Viene in mente il romanzo di una delle grandi voci dimenticate del Novecento francese, Hélène Bessette, Ida o il delirio, in Italia pubblicato nel 2017 da Nonostante edizioni nella traduzione di Silvia Barzocchi, la cui protagonista, Ida, governante al servizio di Madame Besson e raccontata dall’alternarsi di punti di vista che nel corso della narrazione si annullano a vicenda, è morta; Ida, in vita amava i fiori – significativo è questo passo: «Ida non cammina come noi. Un imprevisto nell’avvilente succedersi di giorni plumbei. Se Ida non cammina come noi, se Ida è automa, bambola meccanica, vuol dire che non è come noi, non parla come noi. Le nostre parole non sono le sue. La conversazione è impossibile, l’impossibilità è dissimulata dalle risa […] mentre pensavamo che fosse come noi. Errore. E dall’errore, come sempre, nasce il romanzo».
La narrazione infatti, in Grande studio su Baudelaire, origina proprio da qui, dall’errore, da ciò che viene definito errore, dunque dall’incomprensione, dall’impossibilità di comunicare che crea confini e arma ghigliottine che mozzano teste, le quali restano, però, attaccate al corpo a cui rimane di vagare tra strade in queste pagine raccontate senza indugiare in inutili aggettivi riempitivi – come sosteneva Quiroga – non camminando come gli altri, da essi rinnegato: si legge, «non ti ho mai conosciuto: “vampiro con le ali di un albatro”».
Grande studio su Baudelaire è un romanzo amaro, narrato con una lingua che deve agli insegnamenti del poeta francese, soprattutto rispetto alla cura nella scelta delle parole, nel tessere una rete di corrispondenze che individuano campi semantici di tacita sofferenza (la gallina deperita), pericolo (una scala pieghevole […] era appoggiata sull’orlo di un precipizio) abbandono, finanche paura; è il romanzo di chi ha imparato a trascinarsi con la sua assenza e la sua malattia, nei bassifondi di città labirintiche con una valigia nera che contiene persino sé stesso, tra sbarre agli altri invisibili: questi ultimi vi passano attraverso senza nemmeno accorgersene. È un romanzo amaro dove a volte si intravedono angeli dal volto pulito, che non sanno con che pena si muore quaggiù.
Un’opera che ancora ritrae l’oscurità, com’è per Germania, Germania!, Le poltrone appassite, com’è per Los animales de Montevideo non ancora tradotto in Italia, romanzi in cui l’autore uruguaiano si dimostra in grado di far dialogare tale oscurità, con l’operazione estetica mirata alla costante ricerca della bellezza che egli stesso dichiara di aver appreso dalla poesia, per dare corpo a libri che sono uno solo, poiché nascono ognuno dallo stesso luogo, le sue ossessioni; e se così è, allora si può menzionare quanto si legge in Le poltrone assassine: «Se dovessi dire di che parla quel libro, e questo libro, mi troverei nell’ovvia necessità di dire che, ovviamente, c’è solo un argomento che mi interessa: la compassione», che in questo libro si fa spazio tra «tutto quello che è rotto»: una di quelle frasi che basterebbero a raccontare un romanzo intero, in cui vi è una penna che prova ad affidare alla scrittura il compito di ricomporre un intero impossibile a partire dalla frammentarietà dell’Io, dei luoghi e della implicita riflessione meta-letteraria, direttrici in grado di identificarla come il collante della narrazione, come la cifra della poetica di Polleri, dove la sua voce pare frantumarsi in una costellazione di voci narranti, tante che arrivano a essere nessuna, o una, la stessa che è tante, allo stesso tempo, mentre chi legge si ritrova immerso in un reticolato di Eliotiane atmosfere, quelle di cui si è letto in La terra desolata.
Serpieri in merito al libro di T.S. Eliot – «mettere in rapporto» tali elementi, i quali, seppur mantenendo la distanza che li divide, si riuniscono in una realtà in simultanea: sembra dire l’autore che – in mezzo a quanto di effimero costantemente ci circonda – c’è una miseria umana che non cambia, dalla quale si innalza un grido di dolore; l’atto di compassione è forse nel saper accogliere tale grido, amplificarlo: finché un romanzo avrà l’ardore di fare ciò, come continuava Hélène Bessette, «vuol dire che non morirà come noi».