Hineni
Eccomi. Sono una pecora del ventunesimo secolo: un ingombro malcelato e un enigma per i cuccioli di uomo. A quanto pare sono un’opzione. La mia carne non sarà tenera come quella di mio figlio, nella più lieta delle ipotesi verrò infilzata in dei bastoncini di legno assieme alle carni di innumerevoli sorelle. Le nostre crocefissioni. I bipedi che ci crescono ci mangiano anche. Sento l’odore della sorella scomparsa alzarsi come nube dal sudore dell’umana. Così mi scosto quando si avvicina con la mano tesa. Non c’è tenerezza nel boia, cerco di spiegarlo alle mie sorelle accondiscendenti che si lasciano accarezzare come delle cagne fedeli. Non siamo più sante. Nessuno più ci sacrifica su altari di granito e la nostra carne non è fondamentale. Non siamo la garanzia di un inverno sazio o caldo di filamenti intrecciati in stanze buie. Le nostre antenate sono state selezionate per millenni e oggi questa nostra lana non smette mai di crescere: impiastricciata di sebo e di sterco mi porto appresso le tele di ragno che incontro, l’avena selvatica e le lumache non ancora rincasate dalla pioggia notturna. I miei nodi sono casa di chiocciole e tomba di farfalle.
*
All’alba di ogni nuova giornata mi alzo nell’ovile umido e seguo le orme delle mie sorelle fino al campo.
Gli umani non lo sanno che mormoriamo cantilene antiche per seguire il ritmo dei passi, al mattino e soprattutto al crepuscolo, quando le ombre s’alzano e i cespugli di rovi spaventano gli agnelli.
La nebbia persistente è amica delle fiere. La Madre Superiora avverte l’alito putrido delle belve prima che i cani comincino ad infervorirsi. Escono fuori dalle tane quando il sole è metà sottoterra, e quando la luna è gravida e pesante.
L’altra mattina la tramontana ha portato l’odore di invogli dei lupacchiotti appena nati ed ho avuto paura per mio figlio. Le fiere spaventano anche l’umana, che non sa a volte di essere l’unica flebile barriera tra noi e la lupa. Vorrei poter sentire gratitudine verso di lei, piegarmi come il cane sotto la sua mano, ma sono stati gli uomini stessi a portarci in questa cresta disequilibrata di potere sintetico. Delle volte mi chiedo cosa c’è oltre la collina.
*
Ho ancora abbastanza latte sia per mio figlio che per l’agnella orfana. Ma dovrò sfamarmi di più, e meglio. Ho bisogno di piantaggine, trifoglio dolce, un po’ del fieno dei conigli. Quando riesco, gliene rubo un po’. A dir la verità, mio figlio è abbastanza grande da poter smettere di bere il mio latte, ma io non glielo dico, lascio che assecondi le sue voglie, perché sta iniziando a predirre la sua fine. Talvolta mi fissa coi suoi occhi grigiastri, le sue grosse pupille quadrangolari cercano risposte che non saprei dargli. Non mi è dato sapere come mai Dio abbia predisposto noi pecore ad assolvere queste esatte funzioni. Secondo quale logica. Santina, la vecchia Madre Superiora e mia stessa madre, una volta aveva belato che io sarei una di quegli animali che nascono con la coscienza quasi umana. Una maledizione, una croce. Aveva conosciuto un lagotto con la coscienza, una volta. Era impazzito e aveva iniziato a impalare dei gattini appena nati su un lungo chiodo sporgente. Cose del genere non dovrebbero accadere, specialmente perché poi succede che anche gli umani più razionali cominciano a spergiurare e a ricoprirsi il corpo di amuleti. L’umana inizia a pregare a voce alta mentre pulisce la stalla, e i bambini piangono. Io non credo di stare impazzendo, anche se la linea della pazzia negli ovini è flebile. Quel che ho compreso è che se condizioniamo chi ci sfama, forse è meglio non impazzire.
*
Si sono presi mio figlio, è il mio quarto agnello maschio che scompare. Non voglio più farmi domande. Da giorni non vediamo il sole, dev’essere inverno inoltrato. Non ricordo l’ultima volta che ci hanno tosate.
Il vento ha portato il fiato della bestia mentre eravamo al pascolo. L’abbiamo sentito tutte, e ci siamo incamminate lentamente vicino all’umana.
Mi sono voltata e ho sussurato nel vento: «Hineni. Eccomi».1
Al crepuscolo la nebbia era alta, la Madre Superiora irrequieta alzava spesso la testa dal prato. Le stavamo tutte vicine. Nella foschia sempre più buia vedevamo a malapena i ragni rintanati tra i fili d’erba e le chiocciole accoccolate sotto il tarassaco. Ho fatto fare all’agnella un’ultima poppata e le ho detto di rimanere lì, di non belare, di avvicinarsi alle altre mentre andavo a cercare dei cardi che avevo visto un po’ più giù.
Mi sono avvicinata come mai prima di quel momento al bosco.
Ho visto la terra smussata dai cinghiali e sono passata oltre. In un varco tra i rovi, poi di fronte alla grande quercia.
«Sono qui. So che ci sei anche tu».
Dopo interminabili attimi l’ho vista. Non l’immaginavo così. Magra, spelacchiata. Due grandi occhi gialli, il muso lungo. Dietro di lei, più giù nella boscaglia, due piccoli nasi tremolanti sbucavano dalle radici di un grosso faggio. Lei esitava. «Dov’è l’inghippo?».
«Non ve n’è. Ho mangiato della mandragora per sentire meno dolore quando mi azzannerai alla gola, per cui lascia i miei stomaci. Trascinami lontana, in questo punto del bosco dovrebbe essere facile. E sbrigati: le mie compagne e l’umana mi stanno già cercando».
Era vero, sentivo belare, e la stupida umana avrebbe iniziato a contare le pecore a breve.
«Ti sono riconoscente».
Poi ho sentito chiamare il mio nome da lontano, sempre più distante. Ho guardato in alto un’ultima volta, il cielo bianco si è fatto nero poco a poco e un fiotto di calore ardente mi ha invaso all’attaccatura del collo e sulla groppa. Strattoni, piagnucolii, poi il vuoto lucente. Per un istante ho desiderato una tiepida brezza che mi portasse da qualche parte a chiedere spiegazioni, avevo visto un fascio di luce verso cui dirigermi. Ma la mia coscienza si è già diradata come la nebbia col sole. Calore.
Libera, infine.
1Hineni è una formula ebraica che significa “eccomi”. Viene pronunciata più volte nell’Antico Testamento, ad esempio da Abramo quando Dio gli chiese di sacrificare suo figlio, o da Samuele quando Dio lo chiamò tre volte.