Ho sognato Cosimo Cinieri

«Qnd pss nvtt?».
La fanciulla dal piccolo broncio sensuale si è avvicinata senza simpatia, mi ha guardata asciutta negli occhi e ha detto proprio così. Il punto interrogativo, implacabile. Determinato a inchiodarmi alle mie responsabilità.
Nel frattempo, lungo la consolare fuori Roma nord dove ci aveva scaricate un treno regionale, la mia amica Ofelia continuava da parecchi minuti a tessere gli stessi dieci metri d’asfalto. Nervosa, aggressiva, impaurita, con il telefono premuto tra una mano di cui potevo immaginare il sudore e un orecchio di cui potevo immaginare il rossore sosteneva la propria causa in una patetica contrattazione con la genitrice riottosa: «Me devi fa’ tornà a casa, ma’. Me devi fa’ tornà e bbasta: senza ricatti. Perché se me chiedi de smette de recità e pijà er posto sicuro alla pasticceria de zia Adelina questo è un ricatto no “una controproposta raggionevole” come aa chiami tu».
Da quando ha chiuso con Orazio, Ofelia non ha un posto dove stare e finge di ubriacarsi alle cene a casa dei colleghi pur di trovare una scusa per dormire sui loro divani.
Orazio fa l’attore, come noi. Diversamente da noi però si sarebbe rifiutato di catapultarsi dove siamo adesso.
Dove il nostro nuovo agente ci ha spedito adesso.
«Meglio se non fate troppe domande. Tanto più che pure io non so un cazzo» ci ha spiegato qualche giorno fa nel suo ufficio, sicuro di stare a proporci l’audizione del secolo. Manageriale, spiccio, risoluto, marpione, tamarro. Trattare con il nostro nuovo agente è come girare un biopic su Ennio Doris interpretato da Maurizio Mattioli. «Dico solo che stiamo parlando di una serie con produzione internazionale. In-ter-na-zio-na-le!», ha sillabato roteando il dito indice della mano destra a simulare l’essenza girevole della globalizzazione televisiva. «Benvenute in scuderia, mandrillette. E mo annate llà e fàteve valé!».
«Mandrillette…?» ho esalato.
«Se fa’ pe’ ddì. Non me permetterei mai de insinuà gnente».
«Conoscere il nome del regista aiuterebbe» ha insinuato invece Ofelia.
«Top secret».
«Come top secret? il nome del regista?» ho incalzato, presagendo la fregatura.
«Quando se lavora a certi livelli bisogna fa’ pippa. Il regista vuole rimanere anonimo fino alla fine? Padrone. Chi siamo noi per sindacare le sue volontà? Nessuno. Non siamo nessuno, ve lo spiego io. Quello ci mette il nome e i capricci, Roma ci mette il set, gli americani e i canadesi ci mettono i soldi e noi ci mettiamo in ginocchio e obbediamo. Quindi non fate domande, truccàteve carine, vestìteve ’n po’ da mignotte ché aiuta sempre e limitatéve a seguì le istruzioni».
Ho rivolto a Ofelia uno sguardo che chiedeva assoluzione nel caso di una mia eventuale abiura agli intenti che avevamo formulato insieme scegliendo di iscriverci a quest’agenzia perché qualcuno ci aveva garantito “concrete opportunità di lavoro”. Dovevamo davvero andare fino in fondo? In trenta secondi gli occhi di Ofelia mi hanno raccontato che i soldi con cui pago la stanza in cui sto in subaffitto a Borgata Finocchio basteranno appena per altri tre mesi, che il proprietario del locale in cui fa la cameriera nel fine settimana continua a metterle le mani sul culo e che stiamo raggiungendo i limiti d’età per i bandi di finanziamento pubblico alle imprese artistiche; poi, sul limitare del trentunesimo secondo, hanno risposto Sì.
Intanto l’agente enunciava le coordinate necessarie per la missione: «Prendete il trenino, scendete alla stazioncina, raggiungete la piazzolina con il palo di cemento dipinto di giallo e aspettate la navetta della produzione che vi porta nel casale dove fanno i provini. Ah, la serie è in costume. Settecento, Ottocento… boh. Comunque tipo Rinascimento, me pare».
Penso a Orazio. Orazio ci avrebbe disprezzato se avesse saputo che pur di trovare un ingaggio ci facevamo chiamare mandrillette ed eravamo disposte ad assecondare la volubilità e i giochetti misteriosi di cineasti annoiati. Per lui il mestiere dell’attore si esercita esclusivamente sulle assi d’un palcoscenico e non è concepibile al di fuori degli spazi di sperimentazione e ricerca. Roba che se con la cultura non si mangia e col teatro classico neppure ci si beve, con gli spettacoli di ricerca rischi di finire a chiedere alla gente fuori dal supermercato se ti lascia tenere l’eurino del carrello.
Ofelia la mia amica; Orazio il suo ragazzo. Sembravano nati per conquistare il Globe Theatre e invece…
«Piuttosto che declamare Shakespeare mi vendo il divano» assicurava lui.
E Ofelia non ha battuto ciglio quando l’ha barattato con un sagomatore e tre fresnel malconci.
Ofelia non s’è scomposta quando due pischelli di Centocelle hanno citofonato per prendersi l’armadio. Ofelia ha trovato naturale mangiare in piedi dal giorno in cui il vicino rumeno gli ha fatto il favore di comprargli le quattro sedie della cucina pure se erano un po’ sfondate e ha trovato perfino divertente e in qualche modo chic sostituire la scrivania con vecchi pancali scartati da un magazzino di piazza Vittorio. Ofelia è scoppiata soltanto quando, tornando a casa, non ha trovato il frigorifero. Chissà che piega avrebbero preso le cose se proprio quel pomeriggio lei non avesse acquistato un’anguria.
Ma la domanda di tutte le domande adesso, sotto un sole che illumina distrattamente la piazzolina con il palo di cemento dipinto di giallo poco distante dalla stazioncina dove ci ha scaricate un treno regionale, non riguarda l’ipotetico destino di Orazio e Ofelia di fronte alla sliding door dell’anguria. La domanda di tutte le domande adesso è quella rimasta appesa lì, nel cielo sopra la Cassia: «Qnd pss nvtt?».
Sensuale, bionda, criptica la straniera che l’ha pronunciata bascula tra un piede e l’altro senza smettere di fissarmi. È molto truccata, indossa un abito di pelle nera, la gonna troppo corta traccia una linea orizzontale dritta poco sotto l’inguine a sopralineare lo skyline delle sue belle gambe fasciate da alti stivali leggeri di camoscio. L’inflessione con cui ha curvato il grumo consonantico denuncia i miei privilegi di parlante italiano sull’immigrata in difficoltà.
Prendo tempo, metto su un’espressione provvisoria, chiedo: «Eh?».
Lei sembra francamente seccata; nonostante questo ripete: «Qnd pss nvtt?».
Il mio cervello vaglia rapidamente le lingue di cui riesce a rinvenire tracce mnestiche, il suo la convince di essersi imbattuta in una ritardata mentale. Lo capisco mentre la pressione sul cranio raggiunge il culmine e il barotrauma mi pare imminente: sensuale, bionda, criptica la fanciulla non è straniera. Si è espressa in italiano. O, almeno, lei è certa di averlo fatto. Quando passa la navetta? – è questa la domanda.
Deglutisco, espiro a narici chiuse per dilatare le tube di Eustachio, annaspo, riemergo, respiro. «Non lo so. Stai andando al provino?».
«S».
Ofelia si avvicina. Indicando la ragazza le dico: «Anche lei aspetta la navetta della produzione.
«Pcr, Rffll» dice quella tendendo la mano.
D’improvviso le invidio la naturale padronanza di quell’idioma sconosciuto eppure familiare: il sistema di suoni adottato nella comunità delle videoproduzioni contemporanee.
Ofelia e io non riusciamo a impararlo. Quando ci dicono: «La battuta non la recitare, tirala via» incespichiamo, piroettiamo, proviamo a sfiatare come fanno tutti eppure niente: le vocali ci sbucano da ogni dove estinguendo l’effetto codice fiscale tanto apprezzato dai registi italiani.
Fino a qualche mese fa ci sfogavamo complici, adesso Ofelia mi ha lasciata sola a espettorare anatemi. Una life coach le ha insegnato a guardare le cose da un altro punto di vista, dice, perché non sono le cose a farci male bensì le nostre opinioni sulle cose.  «Lo sosteneva già Epitteto nel I secolo dopo Cristo» le ho fatto notare: «Cosa porta di nuovo la tua guru?»
«I benefici del pensiero compassionevole. Ricordi quanto ci infastidiva ascoltare [omissis]?».
«Perché parli al passato? M’innervosisce ancora».
«Be’, a me no. Invece di andare in collera perché biascica, ora coltivo la compassione. Poverina. Recitare con un supplì incastrato nella trachea! Se pensi che avrebbe potuto fare la giardiniera, la ballerina o qualunque lavoro in cui si può stare zitti comprendi quanto sia pesante il suo karma».
Mi sento sempre più isolata, incompresa e inutile.
Anche adesso che Ofelia s’informa con Rfll sulle tappe del suo percorso formativo. Un tempo le avrebbe urlato: «Studia, porca paletta! Studia ortoepia, studia dizione, impara a respirare», ora sembra sinceramente appassiona al racconto di come quella abbia “ritrovato la bambinanza” nel corso di uno stage di tre giorni.
L nvtt fnlmnt arrv. Come una liberazione. E mentre devia su una strada sterrata che pare destinata a collegare il nulla con il nulla mi ricordo del sogno della notte scorsa.
Cosimo Cinieri doveva decidere se i tratti del mio volto erano sufficientemente nobili da consentirmi di interpretare una contessa del Settecento-Ottocento-ma-più-tipo-Rinascimento con una parrucca normale oppure se, affinché acquistassi credibilità, la produzione avrebbe dovuto investire in una parrucca di fattura preziosa. Penso che questa storia del senso di inferiorità mi stia sfuggendo di mano.