I cani lo sanno
I cani lo sanno quando, per loro, è il momento di andarsene. Latrano contro la notte che cala e spegne la luna in un soffio. In quell’angolo buio di quartiere, ce n’erano tanti. Dormivano tra le casse di legno che il pescivendolo lasciava lì e nessuno buttava; erano il loro unico riparo dal freddo. Ogni tanto gli portavano da mangiare, avanzi perlopiù, scarpe vecchie e qualche coperta. Non davano fastidio a nessuno. Alcuni avevano un nome, altri sparivano senza lasciar traccia.
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Era arrivato settembre. Le mattine erano accompagnate dal vociare dei bambini che entravano di corsa al suono della campanella. 8:20, puntuale. I marciapiedi profumavano della pizza sfornata dal panificio, bianca e scrocchiarella, unta e salata. I cani stavano anche lì, ma nessuno ci faceva caso. Ce n’era uno: il suo nome era Boris. Simpatico, dal pelo grigio e ispido; solo intorno ai suoi occhi neri, acquosi e giganti, dei ciuffetti bianchi. Giorgio il panettiere gli allungava sempre un bocconcino. «Aspetta, bello mio, fatti dare un po’ di prosciutto, che come al solito quel cretino di Cesare me ne ha dato troppo». Rimaneva seduto davanti alla porta, non entrava mai. Nessuno glielo aveva insegnato, ma anche questo, i cani lo sanno da soli. Lo salutavano tutti e lui ricambiava con le sue giravolte. «Sta’ fermo, sta’ fermo, te prego, che me fai casca’».
C’era Umberto, la moglie era morta da un anno e da allora vagava senza una meta. Faceva piccole pause sulle panchine di legno messe lì dal Comune. Mario e il suo bar, sempre pieno di gente. Giancarlo, Fabrizio, Giulio e Pasquale a commentare il disastro dell’ultima partita, a parlare di politica. Lo sport e la politica sono la stessa cosa, sosteneva Giovanni. Lo chiamavano il Filosofo, ma di filosofia non ne sapeva un tubo. Sulla saracinesca della carrozzeria di Quinto, il cartello VENDESI. Quello raccontava sempre che da giovane aveva fatto il militare in Sardegna, ma non aveva firmato, per diventare carrozziere. L’officina una sola entrata, modesta, bordueeeauuux: scimmiottava il francese sempre così. «Che devi fa’? Se invecchia» dissero due e passarono oltre. Altro che, quello se ne stava in Danimarca, a giocare con le macchinine del nipote, guance chiare e capelli arancioni come il padre. I pomeriggi trascorrevano con i vecchi di fronte all’edicola e i ragazzi che andavano al centro commerciale. Piaceva da morire ai giovani, soprattutto d’estate, a Gabriella, a Sara e ad Alessandro. Pure ad Alberto, ma quello per davvero c’è morto: una notte, quando le porte erano chiuse, pensò bene di passare per il condotto di aerazione.
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I cani lo sanno quando non sono graditi, ma restano a fissarti un attimo, non sia mai cambiassi idea, ti fosse rimasta ancora una carezza. Continuano a camminare, sperando in altre gambe su cui poggiarsi, in altre pozzanghere per levarsi la sete.
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Fine del turno e poi il temporale. Fa per aprire l’ombrello. Ma l’ombrello è rotto e fuori piove. Nell’altra mano il portafogli e la borsa a tracolla. I suoi movimenti impacciati. Le cade tutto, gli occhiali e le chiavi finiscono a terra. Una folata di vento si porta via un biglietto dell’autobus. Sul retro c’era una data, quella di una corsa sbagliata, da non fare mai più. Erano passati mesi ormai, da quell’ultima volta, e la città, da allora, era diventata un esercito d’acciaio. Le rotaie, i fili del tram, i tralicci e gli edifici in cemento. I gabbiani pescano brandelli di plastica dai cassonetti. Nei canali di scolo scorre una schiuma bianca, è l’acqua che si sta portando via lo sporco di mesi. Davanti alle poste una coda tremenda, lo sportello automatico è guasto. Una vecchia guarda dal suo balcone la strada in movimento. Migliaia di frasi incrociate per caso.
Passi tu a prendere la pizza stasera a cena non vengo devo lavorare anche domani ci eravamo detti che ci saremmo visti senza fretta oggi è stata una giornata campale mi ha scritto che mi deve parlare spero non sia successo qualcosa di brutto. Una coppia litiga alla fermata dell’autobus, lui da un lato, lei dall’altro. Nella lingua italiana ci sono infiniti modi per chiedere scusa, si dice. Prima o poi li useranno.
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Ai cani bastano piccoli spazi, volesse il cielo un cuscino. Parlano tra di loro con un linguaggio a noi incomprensibile; parlano tra di loro anche se distanti. Durante le notti, li si sente abbaiare. Non si sa cosa si dicono, se parlano del più e del meno, o se magari le loro sono richieste d’aiuto.
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Dai balconi delle case popolari, gocciolavano lenzuoli penzolanti. C’era Monica che lavava il suo barboncino sul pianerottolo, e anche quello della Mirna, di Lora e della signora Roberta: dieci euro, meno di qualsiasi toeletta. Matasse di pelo e il rumore del phon per le scale. Lorena e Serena, quando ne avevano, si scambiavano i vestiti per le figlie. Ma c’era Rosina per prima, a capare fagiolini davanti al portone, quando quei due poliziotti arrivarono. Lei fece col dito “abita lì, secondo piano”. Era settembre inoltrato, con le sue foglie gialle e le giornate corte. Dovette seguirli, ma non lo ha visto, era coperto, ha visto solo il lenzuolo. Ha esagerato, le han detto, ma non era vero. Non è così che era andata. Lo avevano preso a sberle. Erano sette, incappucciati e vestiti di nero. Lo avevano trovato in un vicolo stretto e portato via alle prime luci dell’alba. Non c’era nessuno, pure il lampione era spento. Lo avevano portato all’obitorio. Peccato, proprio l’altro giorno aveva fatto un colloquio. Era tornato a casa contento e quando era contento si metteva a cantare. È così che sarebbe dovuto uscire di scena, dice Giuseppina che, di notte, lo sente ancora suonare.
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Ennesima notte di insonnia, e di piovere ha smesso. Il caldo, un’estate andata male, le ferie finite e l’università che non riprende. Dal parco a pochi metri, quattro voci sguaiate e ubriache. Gli occhi son stanchi, ma non vogliono chiudersi. È una malattia, in lei parecchio evidente. A spezzare l’oscurità, la spia del caricatore e la luce blu della zanzariera – il sapersi da sola, lontana dai clacson, dalle chiacchierate con quelle poche persone che considera amiche. Il libro che sta leggendo sulla scrivania. Il tasto d’avvio del computer indica che è acceso, ancora aperto quel file Word. Sulla parete, i disegni dei bambini. Fuori, due netturbini salgono su un camion, forse tornano a casa. Intanto la luna somiglia a uno spicchio d’arancia, come quello arancione. È a un passo da quei marciapiedi, dal distributore di bibite zuccherate. Gli Scorpions nelle orecchie a tutto volume.
Finita la musica, si accorge che la vicina sta russando, si spegne l’ultima finestrella in quell’ammasso di palazzi di fronte al suo balcone.
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Il Comune ha mandato una squadra di accalappiacani. «Li staneremo tutti come topi» disse uno di loro a una bambina. «Ma poi li ammazzate» rispose lei. Quell’individuo sorrise, «Macché, andranno in un posto bellissimo. Non si possono vedere cani che dormono per strada, non trovi?».
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I cani lo sanno quando, per loro, è il momento di andarsene. Infatti, se n’erano andati tutti. Alcuni avevano un nome. Altri erano spariti senza lasciar traccia. Li hanno cercati in ogni dove, poi non li hanno cercati più. 8.20, la campanella della scuola puntuale come sempre. È uscita di casa con in mano un bustone e di lei nessuno ha saputo più niente.