il bagno esterno celardo

Il bagno esterno

Ricordo ancora la data: giovedì, primo Marzo, anno  duemiladiciotto. Avevo tredici anni. Claudia, mia madre, stava  guardando la tivù. Era nota in tutto il quartiere: l’unica  prostituta a domicilio nel giro di chilometri. Non diceva una  parola; umettava le dita dei piedi e passava lo smalto sulle  unghie avvolte in un fazzoletto. Mi chiese di portarle un lattina  di coca cola. Distese le cosce sul cuscino del divano, sbottonò la  minigonna e si massaggiò il ventre scoperto. A un tratto, il  campanello di casa squillò. Raggiunsi la cucina e mi nascosi  dietro lo stipite per spiare la scena: lei si avvicinò, in punta  di piedi, all’ingresso. Michele, sulla trentina, nerboruto, giacca  di pelle e t-shit infilata nel jeans, le afferrò il culo e le  infilò delle banconote nel taschino posteriore della minigonna.  Era ritornato a portarle i soldi dopo aver consumato l’amplesso in  mattinata: quanta premura! Le sussurrò qualcosa all’orecchio e lei  rise. Non so come, ma riuscì a vedermi e fui costretta a  salutarlo. Prima di andarsene, mi ricordò che presto avrei avuto  un bel culo proprio come quello di mia madre. Che stronzo! Claudia  si voltò e accennò un ghigno smaliziato. Fu in quel momento che  capii cosa dovevo fare. Sventolò la banconota da cinquanta euro e  mi ordinò la solita spesa. Le urlai vaffanculo! che questa volta  ci andasse lei; non ne potevo più di vivere in quella montagna di  merda. Lei mi schiaffeggiò, un colpo che mi sconquassò la  mascella. Mi disse che le dovevo tutto. La guancia indolenzita  pulsava ma riuscii a trattenere la lacrime.  
Così, andai nel cortile del mio palazzo. Rifiuti e sterpaglie  infestavano le aiuole; auto e motorini parcheggiati all’esterno  accompagnavano una lunga fila di uomini. Tutti aspettavano il loro turno. Toccò a me, e la voce, al di là della porta blindata, era  quella di Giuseppe. Mi teneva in grembo quando ero piccola, prima  che sperimentasse l’eroina e l’abisso della povertà. Sussurrai:  “due grammi da venticinque”, lui inserì la dose, avvolta nella  carta argentata, in una fessura d’acciaio. Fu allora che il suono  delle sirene riecheggiò nel cortile. Una voltante dei carabinieri  entrò nel parco; i motori delle auto rombarono, le persone  sciamarono in mille direzioni: caos totale. Giuseppe, al di là  della porta, urlò ai suoi di disperdersi nel palazzo. Persi il  controllo del mio corpo e scappai; un nodo alla gola mi impediva  di respirare. Raggiunsi il primo piano ma sapevo che non potevo  fermarmi. La seconda rampa di scale conduceva al mio appartamento.  Le gocce di sudore scendevano copiose sul viso. Picchiai con il  pungo chiuso contro la porta di casa; uno, due, tre colpi. Urlai:  mamma apri, cazzo, fai presto! Non ci fu alcuna risposta. Dal piano terra, i carabinieri gridavano: “fermi, che nessuno si  muova!”. Notai, allora, il bagno esterno del ballatoio, ormai in  disuso. Mi intrufolai nel primo cesso disponibile e chiusi la  porta. Mi sedetti sul water con la gonna tirata su e le mutandine  abbassate anche se non avevo il minimo stimolo fisiologico.  Soffocai un grido di paura nel palmo della mano e rimasi in  silenzio. Poi una porta sbatté. Chiusi gli occhi, i passi nel  corridoio mi opprimevano e il clamore che saliva dal cortile era  incessante. Il rumore di scarponi si fece sempre più vicino e poi  una voce che diceva “libera tu questo cesso”. Sollevai i piedi  come una ballerina, con le mutande avvinghiate alle caviglie agganciate alle converse rosse. Cadde un silenzio tombale.  Sussultai e un uomo aprì la porta del bagno. Aveva un volto  familiare, ossuto e cinereo, come tutti quegli uomini cresciuti  nel parco. Ci guardammo negli occhi e poi calò il buio. Non  ricordo più nulla. Cominciava ad annottare quando uscii. Il basso  ventre mi faceva male. Mi arrampicai all’unica finestrella e  guardai fuori. Un vento gelido penetrò nel bagno. Mi sfilai le  scarpe, calpestai le piastrelle gelate e me ne andai. Fu allora  che capii che non avevo scelta: scappare per sempre o trattenere  le lacrime, ancora e ancora.