Il coccodrillo
Quando mi sono alzato in piedi, lui era lì, immobile, il dorso scuro a filo d’acqua e la mia sagoma gettava un’ombra sulla superficie torbida dello stagno.
Stavo ritto, come qualcuno che crede di sovrastare la terra, le gambe lunghe a dismisura, il corpo schiacciato dalla prospettiva, la testa quasi inesistente. All’apparenza privo di arti superiori – reggevo forse qualcosa tra le mani – il mio corpo mutava forma e colore; lievi increspature lo attraversavano di continuo, piccole onde ne limavano i confini.
Liquide, le mie fattezze si confondevano in altre e un orrore – un’angoscia – mi assaliva, ma non riuscivo a smettere di guardare, e la mia sagoma, il suo dorso, si confondevano: lui immobile, in attesa, lei un colubro guizzante, un gattopesce, un kawauso.
Mentre il sole cadeva a picco oltre la montagna e un bagliore colpiva la superficie dello stagno, credetti di averlo visto muoversi, credetti di aver visto le brevi zampe arrancare, trascinando il ventre lungo la fanghiglia scura; ma mi sbagliavo.
Lui era ancora lì, dove lo avevo trovato, fondale del mio riflesso capriccioso.
Mi sono accovacciato – ne sono certo, nemmeno la sagoma rimasta immobile può farmene dubitare – per raccogliere una manciata di foglie ingiallite che la bruma aveva celato ai miei occhi, dopo avermi nascosto i piedi, già sprofondati nella sabbia bituminosa.
Sotto i polpastrelli, le foglie si rivelavano morte; non di una morte viva, un trapasso, bensì morte da sempre, copie di una realtà solo immaginata, incolume da vento, acqua e terra. Non erano che lamine sottili di acetato, e rividi mia madre quel pomeriggio all’uscita da scuola specchiarsi nella vetrina della merceria all’angolo, agghindata di giallo. Sceglieva un paio di calze, mentre io restavo immobile oltre la soglia della bottega, con la cartella sulle spalle e gli stessi piedi di oggi, solo più piccoli, nascosti nel paio di scarponcini sprofondati nel catrame caramellato di metà luglio.
L’acetato ha largo impiego industriale, è resistente, ipoallergenico, biodegradabile; in futuro, potrebbe sostituire le foglie. Ci si possono modellare occhiali in svariate fogge e colori. Ci si può scorgere il viso specchiato di una madre in vetrina. Copre le rughe, riduce il senso di mortalità materna.
Guardo il dorso del coccodrillo, ed è il mio stesso dorso, lo stesso dorso di mia madre, e vorrei scappare, vorrei che fosse lui a costringermi a farlo, ma niente: resta immobile, come appisolato o in guardia, e lo specchio torbido dello stagno divora ogni raggio di sole che cade a picco oltre la montagna.
Termina di splendere anche l’ultimo bagliore; è per questo che decido di gettare i fogli di acetato giallo in acqua, per vederli galleggiare, sovrapporsi, disperdersi, cercarsi. E la stessa paura che mi aveva vinto al principio, mi assale una seconda volta.
Ora, io non so nuotare, è vero, ma ero rimasto apposta a riva, senza bagnarmi, e i piedi erano nascosti dalla bruma, nessun’onda li avrebbe potuti scoprire e lambirli.
Le mie mani reggono un oggetto arcano.
Mamma teneva stretta una borsetta di coccodrillo.
Io portavo una cartella rossa sulle spalle.
La cartella era piena di quaderni.
I quaderni erano coperti da una pellicola in acetato giallo.
Le foglie cadono in autunno.
Con il grasso di coccodrillo siamo in grado di produrre biodiesel di alta qualità.
Quando, infine, si mosse io non lo vidi. Non lo fece contro di me; il coccodrillo non può rimanere in acqua per più di trenta minuti.
Se non fossi stato così preso da me stesso e mi fossi preso cura dell’altrui mistero, avrei avuto tutto il tempo per scappare.
Ma, ormai, è fatta.
Arcano è tutto / Fuor che il nostro dolor.
(Giacomo Leopardi)