Il disprezzo
Al primo colpo d’occhio hai pensato all’arrivo del capitano Benjamin L. Willard nel campo del colonnello Walter E. Kurtz. Ti sei guardato intorno incredulo. Al posto dei soldati morti appesi agli alberi della giungla cambogiana c’erano foto attaccate alle pareti dell’alloggio. Tante foto. I muri ne erano pieni, occupavano ogni centimetro di parete. Erano i cadaveri dei ricordi di un uomo che si era confinato nell’archivio del tempo passato. Nella camera di un apparente delirio della memoria. La sua corporatura possente avrebbe potuto ricordare quella di Marlon Brando nel film oppure quella del regista Francis Ford Coppola. Il film era Apocalypse Now Redux. Da una scena di questo lungometraggio avresti preso in seguito il nome per una tua fallimentare compagnia teatrale, di cui eri l’unico membro fisso, si chiamava Les Soldats Perdus e tu realmente ti sentivi perduto. Roxanne Serraut-De Marais, la vedova che accoglie il capitano Willard nella tenuta in Cambogia di cui è proprietaria la sua famiglia di ex coloni francesi, dice all’ufficiale che nei suoi occhi legge la stanchezza di quella guerra. Gli dice che ha lo stesso sguardo che avevano i soldati della loro guerra. Li chiamavano les soldats perdus, i soldati perduti. Poi vuole offrirgli un po’ di cognac. Lui, da principio rifiuta, devo andare, devo occuparmi dei miei uomini, le dice. La guerra ci sarà anche domani, gli dice lei. E Willard deve ammettere che sì, è vero.
Questo dialogo ti veniva spesso in mente. Diceva che dalla guerra puoi soltanto prenderti un momento di sollievo. Una breve pausa. La guerra va avanti. Anche adesso con quell’uomo ci hai pensato. Era un produttore di una certa importanza in Italia nel tempo lontano delle belle donne, di una diva del cinematografo come moglie, gli anni di automobili veloci e luccicanti e lussuose residenze, delle feste piene di gente famosa a bordo piscina, tanta gente; e guardalo adesso: sembra un reduce fuori di testa convinto di essere ancora a capo di un reggimento. Ma il suo esercito non è fatto che di carta. Anche lei e la sua amica guardavano tutte quelle fotografie con un certo stupore. Sorridevano attraversate da un inquieto disagio. O meglio, lei sorrideva con un inquieto disagio, la sua amica conosceva bene l’ex produttore e seppure non fosse mai stata in quella suite all’ultimo piano, sapeva della natura eccentrica dell’uomo. Malgrado non si aspettasse l’esibizione maniacale dei suoi ricordi cinematografici. Il grosso uomo pareva non far caso alla vostra meraviglia e vi ha fatto segno di sedervi su alcune poltroncine davanti al letto dove sedeva lui. La porta-finestra rivolta sulla Strada Statale 1 inquadrava il niente attraversato dalle automobili di chi si recava nelle località balneari a pochi chilometri da lì per gli ultimi giorni di vacanza, in un autunno che non aveva ancora dimenticato l’estate. L’uomo è rimasto seduto solo alcuni secondi e quando si è alzato è andato deciso verso una foto sulla parete alla sua sinistra: era l’immagine che ritraeva lui con un regista francese della nouvelle vague, l’ha staccata e guardandola ha detto: «Lui è il più intelligente tra tutti i registi che ho conosciuto, l’unico vero genio». Stava parlando di Jean-Luc Godard e aveva parole di elogio soltanto per quell’esile intellettuale con i capelli radi, gli occhiali scuri alla moda di Saint-Germain-des-Prés e la sigaretta tra le labbra. Aveva prodotto nel 1963 un film composto da quattro episodi e uno di questi l’aveva affidato al regista parigino. Degli altri autori, Rossellini, Gregoretti e Pasolini, non esprimeva grande ammirazione. Di Pier Paolo Pasolini si vantava di averlo fatto debuttare alla regia con Accattone, fornendogli tutto quello di cui aveva bisogno per fare un buon film. «Il miglior direttore della fotografia, il miglior operatore alla macchina, il miglior montatore, lui non sapeva come realizzare un film», sosteneva, «e allora pretendevo che ogni mattina mi consegnasse lo storyboard di quanto si doveva girare quel giorno». Detta così sembrava che il merito di quella pellicola fosse tutto suo. Ha riconosciuto però che «Era molto bravo a disegnare e ogni scena era illustrata nei dettagli». In seguito l’avrebbe prodotto per altri film fino al 1967, l’anno di Edipo re. Eri lì perché stavi scrivendo un lungo articolo per un quotidiano sull’anniversario, non ricordi quale, della morte di Pasolini e avevi pensato che parlare con il suo ex produttore potesse esserti utile. In realtà non l’avevi pensato tu, tu non lo ritenevi affatto necessario, l’aveva pensato lei dicendoti della sua amica che ti poteva portare da lui, la sua amica rampolla, se così si può dire, di una famosa dinastia di doppiatori. Quel luogo era quasi una località segreta, un rifugio in cui non potesse entrare il presente. La vita dell’uomo si svolgeva tutta tra il proprio alloggio e il ristorante al piano terra dell’albergo frequentato sempre da gente diversa, come le stanze, occupate da viaggiatori che si fermavano lì per una notte. A parte il personale dell’hotel, nessuno sapeva chi fosse, nessuno aveva il tempo per scoprirlo. Le fotografie erano la sua famiglia, i suoi amici, i suoi avversari, la sua unica compagnia. Ogni tanto ne staccava una – le foto erano attaccate senza nessun ordine preciso e con pezzi di nastro adesivo ingiallito o piccoli chiodi – e raccontava qualche episodio riguardante quello scatto. Di Pasolini però ne ha presa una sola: ci sono loro due, sono in posa davanti all’obiettivo, dietro di loro un paesaggio di terra arida e pietre, solo in lontananza si intravedono rade macchie d’erba e più giù i monti, anch’essi seccati dal sole. Ma non ha detto niente. Doveva essere stata scattata sul set dell’ultimo film girato insieme, era a colori ed erano in Marocco. Non gli hai chiesto perché aveva smesso di produrlo, ma gli hai domandato della sua morte. Eri lì per quello, no? Lui ha sollevato lo sguardo dalla fotografia e ti ha detto: «Era malato, comunque era malato: se non fosse finito così, quella notte, sarebbe ugualmente morto presto. Era malato», insisteva. «E non poteva invecchiare».
«Non poteva o non voleva?» Gli hai chiesto.
Lui ha ripetuto: «Era malato».
«Cosa intende per malato?» hai chiesto ancora. Lui ha accennato un sorriso che voleva dire Dài, hai capito. «No, non ho capito, che vuol dire?». Si è stretto nelle spalle e ha riattaccato la foto al muro. È intervenuta la sua amica a smorzare la tensione che si era creata tra voi due e ha cambiato argomento indicando un’altra immagine. Non hai fatto caso a quale e hai capito che era inutile cercare di saperne di più. Era chiaro che tra Pasolini e lui, a un certo punto, qualcosa si era guastato. Forse, nonostante i film fatti insieme, il loro rapporto non aveva mai funzionato davvero. E quel «Era malato» chissà cosa nascondeva, probabilmente solo pregiudizi. Forse qualcosa di più. Da quel momento in poi non avete più parlato dello scrittore e non vi siete più parlati. Non eri andato lì per ucciderlo come Martin Sheen con Marlon Brando. Nessuna missione da compiere. Non riuscivi a fare a meno di pensare al film di Coppola. Anche se quello era solo un incontro inutilizzabile per un servizio di un inutile giornale. Lui ora si atteggia al vecchio seduttore che cerca di affascinare le due donne con i suoi racconti cinematografici, la narrazione dei tanti incontri con attori e registi che vedono lui sempre protagonista, il più grande, l’artefice di ogni successo – a parte di quello di Godard, ovviamente. “Come in un film di Godard: solo in una macchina che corre per le autostrade […] Come in un film di Godard – riscoperta del romanticismo in sede di neocapitalistico cinismo, e crudeltà”. Ti viene in mente Una disperata vitalità di Pasolini. Come in un film di Godard.
Dopo il pranzo al ristorante dell’hotel, dove i camerieri gli riservano una gentile confidenza, davanti alla reception vi siete salutati. L’anziano uomo con una cordiale stretta di mano ti ha detto «Ciao»: sembrava avesse dimenticato quel breve dialogo scontroso sulla malattia di Pasolini. Pareva aver dimenticato anche perché eravate andati a trovarlo.
In macchina, lei e la sua amica hanno iniziato a commiserare quel povero uomo che tanto aveva dato al cinema italiano ora ridotto a vivere in una stanza d’hotel dimenticato da tutti, in precarie condizioni di salute e in ristrettezze economiche. «Bisognerebbe fare qualcosa perché lo Stato intervenga con gli aiuti che gli spettano», dicevano convinte, mettendosi una mano sul cuore. Sarebbero state capaci di fare una raccolta firme o di inviare una lettera al presidente della repubblica. Probabilmente entrambe le cose. Per un po’ sei rimasto ad ascoltare le loro pietistiche chiacchiere e quando sei intervenuto è stato solo per dire: «Be’, così povero non mi sembra, vive pur sempre in un hotel e mangia al ristorante. E poi che vuole, ha guadagnato un sacco di soldi, se li è mangiati tutti, non lo critico per questo, ha fatto bene, se l’è goduta, ma non provo neanche compassione. Poi, è vero che ha prodotto grandi film, ma anche dei filmacci, ammettiamolo».
«Ti sta antipatico perché non ti ha risposto a cosa intendesse per malato, vero? È questo il motivo».
«È uno sbruffone».
Ormai tu e lei non vi prendevate più su niente. Non vi eravate mai presi su niente. All’inizio facevate solo finta. E l’inizio era stato breve. Ricordi però la notte del blackout, ricordi che era stata la prima di ragionevole quiete. Arrivò all’improvviso verso le tre e mezza del mattino ed era ancora notte tutta da iniziare al cessare di ogni luce, di ogni musica e parole che giungevano dalla radio, di ogni sibilo del frigorifero e dello scaldabagno, di ogni eco della notte di spettacoli per le strade e giochi, visite ai musei aperti, negozi pieni di clienti e illuminazione artificiale troppo artificiale per una sola notte che volevi fosse solo una notte di fine estate caldissima e di quiete. Lei aveva voluto uscire tra la confusione della gente che mostrava tutto il suo divertimento. Ma ora la quiete si era presentata e l’avete capito subito. Siete rimasti per alcuni secondi a guardarvi rischiarati appena dal riflesso della luna penetrato dalla finestra, seduti sul letto, rincasati da non molto da quei fasulli festeggiamenti cittadini, perdendovi e ritrovandovi di continuo sotto la pioggia al neon che a un certo punto aveva preso a cadere violenta. Non avete pensato a un guasto nel vostro appartamento (il suo appartamento: tu ti fermavi da lei solo qualche giorno, alcune settimane, poi tornavi nel tuo, ma bastava una telefonata ed eri di nuovo lì) né del condominio, perché il buio era ovunque: non potevate vederlo oltre il cortile circondato dai palazzi celati ma sapevate che era ovunque e in ogni caso bastava che fosse solo sopra il letto. Forse sopra il letto non c’era neppure il debole chiarore della luna, coperta dalle nuvole del temporale, forse non vi vedevate neanche, ma l’ultima immagine di lei prima che si spegnesse tutto restava nell’immediato ricordo, come se potessi vederla nella luce di ogni notte fuori della finestra. Ha scosso le spalle, si è stiracchiata e quei gesti li aveva fatti di sicuro, allora hai capito che poteva essere la prima notte di quiete. La prima volta che non avreste sbagliato né parole né silenzi. La prima volta che non avete pensato che stavate insieme in quella casa solo perché avevate fallito i passati amori e per quel po’ di consolazione affannosamente cercata e rifiutata in un’altra persona capitata per caso un giorno di poco tempo prima. In quella prima notte di quiete non c’erano rimpianti né rancore. Neanche insoddisfazione. Non c’era niente se non le vostre chiacchiere leggere e divertite nel buio silenzioso, faceva qualche smorfia che anche senza alcun riflesso dopo un po’ riuscivi a vederla, riuscivate a intravedervi perché lo sguardo si era abituato a quella situazione e perché la notte cittadina non è mai realmente buia, neanche privata della sua elettricità o della luna, che forse quella notte sembrava uscita da una canzone di Tom Waits. Si è stesa sulla parte del letto verso la finestra rischiarando i suoi occhi già troppo chiari e i capelli biondi, ora ancora più biondi. Poi ha chiuso gli occhi. Pensi lo abbia fatto. Nel silenzio: il blackout aveva annullato ogni rumore di fondo. Potevi sentire il suo respiro, nella prima notte di quiete.
La Statale Aurelia invece era colma di sole. Il rumore delle automobili.
Un paio di anni prima che morisse, al produttore sono stati concessi i benefici previsti dalla legge Bacchelli.
È strano come gli ultimi periodi della sua vita li abbia trascorsi non lontano dal luogo in cui Pasolini stava scrivendo Petrolio. Forse è solo un caso. Forse un anziano uomo malato voleva stare in un posto che gli ricordasse un altro uomo, a suo dire, «malato».