L’enfer, c’est les autres: il dramma della parola in Drive My Car di Hamaguchi
Che vuoi farci, bisogna vivere!
Noi, zio Vanja, comunque vivremo.
Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di lunghe serate;
sopporteremo con pazienza le prove che il destino ci manderà.
Può l’intero universo mutare in un attimo? Può la vita diventare un inferno in terra senza un motivo apparente? Sono queste le domande da cui parte (e a cui arriva) il gioiellino giapponese che ha stregato critica e pubblico di mezzo mondo. Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi prende in prestito il soggetto da Uomini senza donne, un racconto breve di Murakami Haruki, ampliandolo, decostruendolo, negandolo.
L’intreccio è fra i più comuni: Yusuke Kafuku è un regista teatrale che perde la moglie Oto, sceneggiatrice televisiva, a causa di un’emorragia celebrale. Due anni dopo il protagonista è incaricato di portare in scena un adattamento di Zio Vanja, dramma di Anton Čechov, presso un festival di fama internazionale. Durante la preparazione dello spettacolo, grazie alla compagnia di una giovane autista personale, il regista riesce a ricostruire le tappe della frammentazione del suo matrimonio, da un tradimento subito fino alla morte della donna.
È abbastanza evidente che Drive My Car non verta sul cosa viene detto, ma sul come. Merito anche dell’intuizione di Murakami, il film si snocciola in absentia della vera protagonista, la moglie deceduta, in modo da costringere sia l’uomo che lo spettatore a ricostruire una storia dolorosa, fatta di frustrazione e rimozione.
La strada scelta per affrontare un difficile percorso di riconciliazione è quella del racconto e della letteratura. La chiave per capire il dramma del tradimento, scoperto dal protagonista solo tramite l’immagine della moglie e dell’altro uomo riflessa in uno specchio (magia del cinema asiatico), sta nell’addentrarsi nella produzione letteraria della defunta. La genesi dei soggetti scritti da Oto è decisamente particolare: la donna riesce a inventare nuovi intrecci solo durante la catarsi dell’amplesso con il marito, il quale – pazientemente – prende nota dei dettagli per riferirglieli l’indomani, essendo la scrittrice preda di amnesia verso le sue stesse creazioni.
È proprio l’ultimo racconto che tormenta l’uomo, in quanto non ha mai potuto conoscerne il finale a causa della morte della donna. Yusuke sa bene, in cuor suo, che in quella conclusione c’è la ragione del tradimento. Lo spettatore, seppur anestetizzato dalla lunga serie di dettagli e particolari di cui è ricco il film, scopre progressivamente insieme a Yusuke nuovi elementi del racconto, cercando di metabolizzarli insieme al protagonista. Intanto la tormentata preparazione dello Zio Vanja di Čechov va avanti. La compagnia teatrale è costretta dal regista a provare il copione in forma statica, prediligendo – in una metafora del film stesso – la dimensione dell’oralità a quella della mimica. Il protagonista è sempre più incerto se portare in scena o meno il dramma: lui sa che le parole di Zio Vanja si avvicinano dolorosamente al racconto incompiuto di Oto, ma non è capace di coglierne il nesso, di metabolizzarne il significato più profondo. Il regista del film riesce, confrontandosi costantemente con il dolore del suo protagonista, a portare sullo schermo l’eterna incompiutezza della letteratura: specchio degli abissi umani, ma mai immagine nitida e risolutiva. Ecco come torna tutto: incompiuta è l’opera di Oto, incompiuto è lo Zio Vanja di Yusuke, frammentata (e non-reale) è l’immagine del tradimento, vista solo attraverso uno specchio.
Il film sarebbe potuto finire così: d’altronde l’incompiutezza e la disgregazione sono valori fondativi dell’uomo moderno. È il limite che nessun essere può oltrepassare: il mistero dell’incompiutezza spiega sé stesso. Ma Drive My Car è qualcosa in più: Hamaguchi non sposa la facile retorica dell’incomunicabilità dell’animo e trova l’espediente per raccontare al protagonista e allo spettatore il finale della storia, il perché del tradimento, il motivo di tutto quel dolore.
La chiave è data, ovviamente, dall’amante di Oto che – durante il tradimento – riesce a “raccogliere” un’altra parte della storia, raccontandola a Yusuke. Il dialogo, per la sua bellezza, è riportato per intero.
– Una liceale si intrufola in una casa di un ragazzo che le piace.
– Questa l’ho già sentita anche io.
– Si intrufolava più volte e lasciava ogni volta un indizio nella stanza del ragazzo. Una volta, si iniziò a masturbare sul letto di Yamaga.
– Qualcuno arrivò a casa, ma la storia si interruppe senza dirmi chi fosse.
– Non finisce qui.
– Sai cosa succede dopo?
– Sì.
– Chi era allora?
– Chi salì le scale intendi?
– Un altro intruso.
– Un altro?
– Non era Yamaga, o suo padre, o sua madre. Solo un ladro. Il ladro la trovò mezza nuda in quella stanza e tentò di stuprarla. Prese una penna che era in giro e pugnala l’uomo nell’occhio sinistro. Lei lottò disperatamente, e lo pugnalò con la penna nella tempia, poi nel collo, più e più volte. Notò che l’uomo divenne sempre più debole. Ha ucciso il ladro. Si lavò il sangue di dosso nella doccia e andò a casa. L’indizio che lasciò nella stanza di Yamaga quel giorno fu il corpo del ladro. La mattina seguente, lei andò a scuola pronta a confessare tutto a Yamaga e affrontare il suo giudizio. Ma quel giorno Yamaga sembrava sempre il solito a scuola. Lei lo vide giocare a calcio dopo scuola apparentemente spensierato come sempre. Le cose non cambiano il giorno dopo. Nulla cambiò.
– Che ne è stato del corpo nella casa di Yamaga? Forse, lei si immaginò solo ciò che successe?
– Lei andò a casa di Yamaga ma nulla sembrò fuori dal normale. Eccetto per una cosa… Una telecamera di sorveglianza è stata installata vicino alla porta d’ingresso. Per non sembrare colpevole, camminò di fianco a casa sua senza fermarsi. Qualcosa di terribile accadde, e la colpa era sua, ma il mondo sembrava completamente sereno come se non fosse cambiato nulla. Tuttavia, il mondo era decisamente cambiato in qualcosa di sinistro. Lei tornò indietro.
“Io…devo prendermi la responsabilità di ciò che ho fatto.”
“Non posso far finta non sia successo nulla.”
“Perché in realtà è successo.”
“Ho davvero ucciso quell’uomo.”
Cercò sotto al vaso ma la chiave non era più lì. Fissò la telecamera di sorveglianza. Perché è l’unico cambiamento che ha suscitato in questo mondo. Guardò nell’obiettivo e disse le sue parole più e più volte. Chiaramente, in modo che lei avrebbe capito,
“L’ho ucciso io.”
“L’ho ucciso io.”
“L’ho ucciso io.”
Questo è quello che so. Forse il racconto finisce qui, oppure continua.
L’approdo di Hamaguchi è ancora più devastante. Qualcosa era cambiato nell’animo di Oto, ma Yusuke/Yamaga non è stato in grado di coglierlo. Per lei il mondo, identico al giorno prima per tutti gli altri, era irrimediabilmente cambiato ma – nonostante tutto – decide di continuare la propria vita fino alla morte, aspettando la ricompensa alla sua incomprensione nell’aldilà. È esattamente la lezione di Čechov, affidata al dialogo fra Serebrijakov e Vanja nell’epilogo del dramma:
«Dio avrà pietà di noi, e io e te, caro zio, vedremo una vita luminosa, stupenda, meravigliosa, ne saremo contenti e ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo. Io credo zio, credo ardentemente, appassionatamente… Riposeremo! Risposeremo! Riposeremo!»
Il “racconto continua”, nonostante tutto, anche per Yusuke. L’ultima sequenza mostra la sua nuova fidanzata che rincasa con la spesa del supermercato. Il tempo è passato, lei indossa una mascherina chirurgica, siamo nel presente. Hamaguchi ha voluto sorprenderci rompendo la quarta parete e portando il dramma di Oto e Yusuke nelle nostre vite. Ma questa è un’altra storia.