Il momento del ricordo e la corsa all’autobiografia
Steven Spielberg si è presentato, per la quindicesima volta, ai Premi Oscar. A ottenere la solita incetta di nominations è un film abbastanza differente dalle storie fantastiche o avvincenti ricorrenti nella sua eclettica carriera. The Fabelmans, ultimo lavoro del regista pop per antonomasia, è infatti un’autobiografia in piena regola nella quale il cognome del protagonista diverge dal reale se non altro per pudore. È particolarmente interessante notare come sia stato proprio Spielberg, mattatore della New Hollywood, a far esplodere una tendenza latente del cinema d’autore occidentale contemporaneo: la corsa all’autobiografismo. Per comprendere il senso di questo strano ibrido fra memoria e finzione è necessario tornare al clima culturale in cui registi come Spielberg hanno mosso i primi passi.
Il disfacimento del militarismo produttivo hollywoodiano e le pressioni sempre più insistenti da parte delle “vagues” europee pongono al centro del discorso il concetto di “autorialità”. Parliamo di un canone culturale che, per la sua forza, è riuscito a resistere (seppur spesso in modo formale) al cinema seriale degli Anni Ottanta, alla mania da blockbuster e ai franchise vari ed eventuali. L’idea, che in ambito letterario e figurativo risulta data quasi per scontata, è molto semplice: la visione dell’autore influenza l’opera rendendola immediatamente riconoscibile e categorizzabile. In altre parole: ai periodi rosa e blu di Picasso si sostituiscono i periodi inglesi e americani di Hitchcock. Se ciò è vero, bisogna anche ammettere il contrario: è anche l’opera a influenzare inevitabilmente l’immagine dell’autore. Questa è la ragione per cui è sempre più frequente incappare in lavori il cui unico scopo è quello di raccontare l’autore, e non viceversa. Questo tipo di tentazione autobiografica, rispecchiando dei canoni molto classici, è molto forte nelle fasi calanti della carriera dei più grandi. Dopo aver lavorato sulle sceneggiature più disparate, arriva il momento di sviluppare il soggetto più importante: la propria vita.
Se il regista sarà comprensibilmente soddisfatto del risultato a prescindere dall’esito, è lo spettatore che diventa arbitro di una carriera, di una certa visione del mondo e – indirettamente – della propria vita. Giudicare l’opera magna o il testamento di un autore, significa dare a posteriori un determinato valore alla sua produzione precedente.
E quindi, se nelle arti popolari i prodotti guadagnano valore grazie alla ricezione della massa, si sta inevitabilmente giudicando anche il proprio passato di spettatore, guardando in faccia lo scorrere del tempo. È forse proprio questo scomodo “risvolto della medaglia” che frena la critica e il pubblico dal codificare un nuovo genere, quello autobiografico dei registi. D’altronde non sarebbe complicato immaginare che, dopo l’esplosione e il declino dei biopic, ci possa essere una successiva ondata di auto-biopic, in cui i sogni, la tecnica e le speranze dell’uomo o della donna regista vengano posti al centro del discorso.
Oltre al caso di The Fabelmans, autoreferenzialità maliziosamente mascherata da dichiarazione d’amore al cinema, si potrebbe menzionare il ben più riuscito Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson (2021), il Belfast di Kenneth Branagh (2021), l’onirico Bardo di Iñárritu (2022) o – per tornare a casa nostra – il sorrentiniano È stata la mano di Dio (2021).
In ognuno di questi film si avverte la più o meno forzata esasperazione della firma registica, esattamente come l’autoritratto di Van Gogh è radicalmente differente da quello di Gaugin. Spielberg, ad esempio, porta agli estremi la perfezione narrativa e la pulizia della messa in scena che ha caratterizzato la sua intera carriera. Anderson, dal canto suo, gioca sull’immensa abilità tecnica e sulla leggerezza emotiva dei suoi personaggi, compito enormemente facilitato da Cooper Hoffman, figlio del grande Philip Seymour. Per portare in scena la tragedia dei Troubles, invece, Branagh saccheggia a piene mani i suoi esordi teatrali shakesperiani, in netta controtendenza alle sue ultime uscite. Trovare il nucleo di Bardo è forse più complesso e controverso. Iñárritu sembra voler alternare la storia del suo ritorno in Messico alla storia del Paese stesso, mischiando drammi familiari all’orrore del colonialismo passato e presente. Tuttavia anche in questo caso è abbastanza evidente che il surrealismo è la chiave per comprendere un film che vuole essere latino-americano nella forma e nella sostanza. Sorrentino, in conclusione, sembra voler riprendere la semplicità pop della Napoli de L’uomo in più (2001) senza per questo rinunciare a quasi un decennio di barocchismo.
Si tratta di film che inevitabilmente hanno polarizzato la critica e gli spettatori: l’odio irrazionale trova il suo opposto unicamente nell’elogio sperticato. Più il calibro dell’autore è maggiore, più è difficile non schierarsi. Se l’oggettività e la sincerità di tali testimonianze rimangono dubbie – d’altronde parliamo sempre di finzione – è pur vero che una buona autobiografia, parlando ai sentimenti più che alla razionalità, permette di instaurare (tardivamente) un nuovo rapporto con l’autore. Ma non solo: potrebbe essere, a posteriori, una bussola per addentrarsi nella filmografia passata. In tal senso la riscoperta da parte delle nuove generazioni sarebbe semplificata o, quantomeno, filologicamente più corretta.
Il genere del biopic registico rimane quindi una suggestione decisamente irresistibile, visto anche il consenso di critica e l’effluvio di premi festivalieri. Sarebbe, dopotutto, anche un esito coerente rispetto alla crisi delle sceneggiature originali, sempre più rare in una foresta di remake, reboot e format in prestito. A rimanere indubitabile è che un’intera generazione di autori – ovvero coloro che hanno esordito fra gli Anni Settanta e il Duemila – si appresta a passare il testimone. Il tempo passa per tutti: celebrarlo è quasi un dovere.