Il sesto dito
La clinica specializzata in trapianti a distanza aveva mantenuto la parola. Le aveva assicurato che il sesto dito della mano destra sarebbe spuntato verso le 16:45 del 21 aprile, in un pomeriggio che sembrava estate. Con alcune settimane di allenamenti giornalieri sarebbe stato mobile e prensile come le altre cinque dita. Un po’ mignolo, un po’ anulare, un arto fluido, senza identità, che avrebbe incluso nel suo curriculum di neolaureata in cerca della prima occupazione stabile. Dopo la tesi sui poeti uraniani, avrebbe annotato con orgoglio: “in possesso di sei dita”.
Era una ragazza volitiva e sveglia, desiderosa di farsi strada nella vita. Peccato per la sua inguaribile balbuzie. Temeva che il suo imbarazzante «se-se-sei di-di-dita» avrebbe annullato lo stupore per una nuova mano destra elegante e seducente. Unghie smaltate in rosso magenta, anelli vistosi e di pregio, un portamento regale, ma in pubblico, fin dall’infanzia, preferiva rimanere in silenzio. Aveva investito i suoi risparmi per quel prodigio ortopedico che avrebbe esibito al mondo. Un vero dito in più per scrivere, per grattarsi, per suonare meglio il pianoforte. Quel dito l’avrebbe resa una piccola donna desiderabile e speciale. Per certo, pensava che molti l’avrebbero ammirata, molte l’avrebbero imitata e persino invidiata.
Quando fantasticava sul suo nuovo arto, immaginava sarebbe spuntato con l’indolenza del Serpente del faraone, l’esperimento chimico che da studentessa l’aveva incantata e che, di nascosto, aveva replicato in casa, ma senza l’effetto finale. Bicarbonato di sodio, zucchero, alcol e sabbia. Qualcosa non aveva funzionato. Si erano generati solo i vapori. Succedeva sempre così nella sua vita. Pianificava, organizzava, possedeva tutti gli elementi, ma questi non legavano tra loro. I suoi sentimenti non producevano alcuna reazione chimica nell’altro e rimanevano inerti come conglomerati cementizi o calcinacci.
Quando il nuovo dito cominciò a svettare le sembrò di possedere un indesiderato corpo estraneo. Nei giorni successivi, lo nascondeva o l’osservava con disprezzo come un compagno di viaggio non gradito. Le sue strette di mano divennero sempre più molli e prive di vigore. I rivolti sul pianoforte generavano errori o accordi modali inesistenti. Sui vagoni della Linea 2, quando afferrava il mancorrente, nessuno la notava. «Che cosa te ne fai di un dito in più? Ne hai proprio bisogno?», esclamò a bruciapelo sua madre. Così, il 16 giugno, dopo un mese e ventisette giorni, alle 11:47 di una mattina che sembrava autunno, decise di ricontattare la clinica specializzata in trapianti a distanza. E per la prima volta, senza balbettare, domandò se quell’arto, non più desiderato, si potesse restituire.