Il volo cancellato

Guardava fuori dalla finestra dell’hotel, un rettangolo di vetro che copriva quasi tutta la parete. All’esterno luci, luci, luci a perdita d’occhio. Erano interrotte solo dalle montagne, che abbracciavano la città. I piccoli puntini colorati creavano precise geometrie quadrate. Era il modo americano di fare le cose: non più la confusione europea, stratificata nei secoli, ma una rasserenante perfezione. Era lui, però, a non essere sereno. Si trovava in quell’hotel dal nome altisonante per puro caso. La mattina stessa qualcosa non aveva funzionato nella ripetitiva liturgia aeronautica. Un bullone fuori posto, una spia di troppo accesa; il piccolo aereo destinato a lui, l’unico della giornata in quell’aeroporto dimenticato, non arrivò mai.
Qualche ora dopo era già lì, in un hotel apolide, così familiare che avrebbe potuto trovarsi tanto a Berlino quanto a Sydney.
Il punto era che l’arrabbiato viaggiatore non si trovava né a Berlino, né a Sydney, se non altro a giudicare dal timbro sul passaporto, il quale ancora aveva nel mezzo il biglietto del volo ormai fantasma.
In quel luogo era per vacanza, nulla di più cristallino. Nessuna persona da vedere o affare da portare a termine. Anzi, era proprio da quello che scappava, con la pedante euforia di un liceale in gita. Il pensiero del ritorno, di una vita stanca da rifondare, era forzosamente tenuto lontano. La tregua, però, non era ancora scaduta e il programma procedeva spedito, pensò.
Almeno fino a quella mattina. Da quando aveva messo piede in quell’albergo si era sentito come in uno di quei road movie esistenziali, dove i chilometri percorsi sono la metafora della vita e ogni banale cliché sembra una verità universale. Il viaggiatore decise di stare al gioco del fato: aveva oltre 12 ore prima che partisse il prossimo trabiccolo e, tornare nel freddo centro di quella città, che pensava aver salutato per sempre, non era nelle sue intenzioni.
Spostò la televisione davanti la finestra e spense tutte le luci. Aveva in mente l’inizio di Alice nelle città, quando il biondino protagonista, che un po’ gli assomigliava, si chiedeva perché le pubblicità del nuovo mondo fossero così aggressive. Il passeggero del volo cancellato giustamente pensò che gli anni Settanta erano finiti da un pezzo e le pubblicità, come il capitalismo, sono una merda ovunque. Spense la TV e ritornò a guardare fuori. Aveva bisogno di circoscrivere la sua presenza in uno spazio definito. Non ci riuscì. Provò a ricordare l’ultima volta in cui la sua vita fosse stata in pausa per così a lungo. Non la ricordò. Era forse quella la causa di ogni angoscia, la stessa che lo attendeva al ritorno? Impegni, progetti, sorrisi, ottimismo, chilometri, alcol: il modo più facile per sopprimere il desiderio di fuga.
Lo straniero sentì la vertigine dell’angoscia: decise quindi di scendere in strada. Seguì l’immenso corridoio deserto, quelli con la moquette che affonda molliccia sotto i piedi. Era piena estate, ma il freddo pungente gli fece ricordare per un attimo dove si trovasse. Stabilire che ore fossero era impossibile. In quell’hotel non c’era neanche un orologio, neppure quelli âgés che segnano l’ora di località impronunciabili. L’ormai apolide viaggiatore volse il suo pensiero al Paese natio. A quell’ora, qualunque essa fosse, doveva già essere giorno. Il momento gelido in cui la gente si prepara per andare a lavorare, a svolgere quegli impieghi tristi, ripetitivi e (a volte) ben pagati che la società offre come ricompensa per aver soffocato la vitalità. Anche lui, anni prima, aveva deciso di soffocarsi, ma durante quella notte era ben deciso a risalire dal mondo dei non-vivi.
Prese l’ascensore e si diresse verso la reception. In un moto di insensata nostalgia ricordò la mattina stessa, con la valigia, smarrito e disperato come un bimbo che ha perso i genitori. Gli sovvenne l’immagine dell’anziano tassista che lo aveva portato lì dall’aeroporto, non prima di sbagliare strada un paio di volte, finendo in quartieri con le strade di terra battuta. Doveva essere un resistente: pur lavorando per quelle compagnie che impongono turni da dodici ore e controllano la posizione in tempo reale, voleva arrivare all’hotel con le sue forze. “Fanculo il navigatore, io la strada la conosco”, avrà pensato lo chauffeur, qualifica ancora in voga in quel Paese. Anche lo straniero avrebbe fatto così da allora in poi. Appena uscito da quell’incubo li avrebbe sabotati da dentro, avrebbe difeso la sua anima a spada tratta, pensò. E sì, avrebbe anche smesso di usare il navigatore.
Ripresosi dai sintomi del suo jet-lag esistenziale, buttò la sigaretta, salutò il receptionist, solo dietro un immenso bancone di legno, e risalì.
Iniziò ad avvertire un certo senso di calma: le luci erano sempre lì, così come il loro ordinato bagliore, il silenzio era quasi solido, nonostante l’hotel ospitasse l’equivalente della popolazione di una piccola cittadina europea. Riprese il suo posticino davanti alla finestra, provando a dedurre dalla tonalità del cielo che ore fossero.
Iniziò quasi ad abituarsi a quel silenzio artificiale, pensato per far riposare bene lorsignori, in viaggio d’affari per comprare un pezzettino di quel martoriato Paese in vendita. Se fosse rimasto lì qualche altra settimana, forse, avrebbero comprato anche lui. In quel momento, però, l’allucinato viaggiatore aveva un vantaggio strategico: loro dormivano e lui era sveglio. Avrebbe potuto entrare nelle loro camere e ammazzarli uno per uno, così da vendicare il suo dolore. Fantasticava sui metodi migliori per compiere il delitto senza essere scoperto. Ma non poteva, aveva di meglio da fare. Era quasi al compimento di uno sforzo maieutico. Sospeso, senza programmi, l’ospite della camera 723 sentiva di non avere più un domani, una meta o uno scopo. L’amore e l’odio gli erano finalmente alieni. L’intellettualismo dietro cui soleva nascondersi era svanito, si sentiva nudo e pronto alla redenzione. Nel finestrone dell’hotel poteva quasi vedere il riflesso dell’anima che aveva venduto al diavolo per trenta denari, puntualmente accreditati ogni primo del mese. Nel cuore della notte eterna poteva plasmare la sua esistenza come desiderava, demiurgicamente creare i suoi compagni di viaggio dall’argilla. Credeva ormai di poter abitare ogni angolo del globo. Se avesse voluto, avrebbe potuto ricominciare ovunque, anche lì, in quella malinconica terra ai piedi delle montagne. Si percepiva come un essere neonato, figlio di un continente non ancora scoperto. Il nuovissimo mondo gli si schiudeva dinanzi. “Sì, sì, sì, ci sono – pensò – devo solo alzare la testa e il mondo s’apre davanti ai miei occhi, mi sale nel cuore”.
Viveva tutte le epoche, non ricordava il passato, non aveva futuro.
Era libero. «Sono libero!», gridò come un ossesso, riversandosi sul pavimento come in overdose di serotonina.

Dopo un tempo indefinito, alzò finalmente lo sguardo. Le fibre della moquette gli avevano vistosamente rigato il volto. Dalla bocca gli usciva un rivolo di saliva. Le luci disposte in fila indiana erano ancora lì, ma il blu scuro lasciava spazio all’azzurro, al rosa, al rosso. Albeggiava. Fu così che si alzò lentamente, prese la valigia e il passaporto, chiuse lentamente la stanza per non disturbare chi dormiva. Aveva raccattato tutto: lo spazzolino, i souvenir, l’acqua dal minibar. Tutto, tranne il biglietto del volo cancellato, casus belli della notte che volgeva al termine. Era ben cosciente che la sua libertà si trovasse in quel rettangolo di carta, al sicuro in quella stanza. “Un giorno passerò a riprenderlo”, pensò nel gelo delle prime luci del giorno, lasciandosi l’hotel alle spalle.