L’amore è più freddo della morte
Il televisore era ancora acceso. Tutti i televisori erano accesi nel grande appartamento che dall’ultimo piano affacciava sulla Clemensstraße di Monaco di Baviera. In ogni stanza, il volume era più o meno alto. La camera di Fassbinder aveva il materasso sul pavimento, nessun letto, solo quel materasso, le lenzuola erano sporche e in disordine, posaceneri pieni di mozziconi di sigarette ovunque, il caldo aspettava senza alcuna pazienza l’estate che sarebbe venuta dopo una decina di inutili giorni e rendeva l’aria esausta, il volume lì era un ronzio che come una fastidiosa colonna sonora dava una sinistra tensione ordinaria alla sua morte. La notte di Rainer Werner Fassbinder era ormai una notte di televisori sintonizzati su qualche canale della TV pubblica tedesca. Non la guardava, ma doveva riempire il vuoto. La confusione umana dei giorni della vita in comune era stata sostituita dal rumore di fondo tecnologico.
Laura, dopo un piccolo bacio sulle labbra, interrompe il silenzio per alzarsi e mettere un disco. Si libera delicatamente il polso dalla leggera presa di Kristen.
«Un po’ di musica, mmm? Spiritual Front?», dice mostrandole la copertina del CD preso dal tavolo lucido che riflette i palazzi grigi con le porte-finestre come specchi sui piccoli balconi oltre la finestra sul Boulevard de Magenta di Parigi.
Kristen fa di sì con la testa.
Laura è nuda come la sua amica, Kristen ha i capelli e i peli del pube neri, la peluria sul monte di venere di Laura è più scura dei suoi capelli biondi e Kristen la guarda seduta sul letto nel pomeriggio di nuvole d’acciaio e imminente pioggia ben sapendo che neppure un temporale sarà sufficiente a bagnare Laura. Nonostante Laura ci proverà. Nonostante il desiderio e l’attesa.
«Black Hearts in Black Suits: è un album ispirato a Rainer Werner Fassbinder. Ai suoi amori infelici e disperati, alla sua scelta della morte», dice Laura. «Forse si è suicidato; sì, l’ha fatta finita con i rimorsi e le delusioni, la stanchezza, droga, sonniferi e via. Parlava spesso della morte, negli ultimi periodi. Diceva di pensare al suicidio, perché niente lo entusiasmava più».
Juliane Lorenz, la sua montatrice, che si curava di lui anche nelle incombenze quotidiane, tipo fargli la spesa, verso le quattro del mattino del 10 giugno 1982 rincasò e lo trovò riverso nudo sul materasso, il sangue uscito da una narice aveva imbrattato una pagina del copione di uno dei film che stava preparando. «Ho tre progetti in corso», disse Fassbinder in un’intervista. «E nessuno per la mia vita». Il regista Wolf Gremm, per il quale Fassbinder aveva recitato, grasso, sfatto, in un completo di leopardo e i capelli unti, nella pellicola noir di fantascienza Kamikaze 89, che dormiva in un’altra stanza – perché, nonostante il bisogno di isolamento e l’insofferenza verso chiunque arrivata a logorargli l’umore cupo e sfinito, Fassbinder aveva ancora paura di restare solo, lo assaliva la solita angoscia e quell’angoscia non aveva fine – non si era accorto di niente: come avrebbe potuto, in quella casa la realtà quotidiana e la finzione televisiva si erano confuse in un unico ininterrotto programma che ricopiava malamente il miscuglio tra vita e messinscena che da sempre era stata l’esistenza di Fassbinder. Confondere tutto. Quando, nel 1970, si sposò con l’attrice Ingrid Caven, Fassbinder arrivò sul set di Attenzione alla puttana santa con l’abito bianco della cerimonia: vi girò l’intero film. Quel film parlava dei dissidi all’interno di una troupe cinematografica. Lou Castel fa il ruolo di Fassbinder. Fassbinder interpreta il direttore di produzione. Ognuno detesta sé stesso e gli altri. Si vuole solo chi non c’è e non ci sarà mai.
“Cosa non darei per sedermi in qualche bar nel deserto con Marlene Dietrich. Sbronzarsi”, dice il regista.
“La immagino fredda come il ghiaccio”, dice Hanna Schygulla. “Come una donna d’affari”.
“No, penso sia davvero affascinante”, lui prende il polso di lei. “Immagino la sua mano sul tavolo e io che ci appoggio la testa. Voglio uscire di qui. Non voglio fare questo dannato film”, dice Lou Castel con la guancia adagiata sulla mano di Hanna Schygulla portata sul tavolo di un ristorante sul golfo. La tovaglia è bianca come il vestito da Marilyn dell’attrice. Lui indossa il giubbotto di pelle nera alla Fassbinder.
“Perché no?”, gli chiede lei.
“L’intera cosa mi fa star male”.
“Penso che sarà un successo”.
“Sì, è questo il problema”.
Con il successo cresceva il malessere di Fassbinder. Fino a diventare insopportabile. Fino a non sapere più dove voleva arrivare.
«Fassbinder amava ancora Günther Kaufmann», dice ora Laura. «Ma Kaufmann era sposato, anche se questo, in fondo, non doveva poi contare, però era eterosessuale e ha sempre rifiutato le avances di Fassbinder. Un rifiuto di troppo. L’attore era nel suo ultimo film, Querelle. Interpretava Nono, il marito di Lysianne, la tenutaria e cantante de La Feria, l’hotel bordello del porto di Brest dove i marinai che perdevano giocando a dadi con Nono dovevano sottomettersi a un rapporto omosessuale con lui».
Fassbinder avrebbe voluto perdere ai dadi come Querelle. Perdere apposta. Barare.
Laura tira fuori da un cassetto un dildo, di quelli con la cintura di cuoio.
«Se lo metteva la ballerina che faceva il padrone de La Feria, per sodomizzare Querelle, per sodomizzarmi: avevo il ruolo del bel marinaio senza scrupoli al Thèȃtre de La Ville», dice mostrando quell’oggetto da sexy shop alla sua amica.
«Me lo ha regalato lei. Guarda, Kristen… si stringe intorno ai fianchi e… è come uno vero, l’ho provato nel mio culo». Sorride con un certo disagio e rossa in viso. Lascia cadere il fallo finto a terra.
«Le lacrime amare di Petra von Kant racconta di loro due: la stilista di moda Petra von Kant, Margit Carstensen, è Fassbinder e Hanna Schygulla, la modella amata Karin Thimm rappresenta Kaufmann. Che bella che era Hanna Schygulla!».
Irm Hermann invece è Marlene, senza cognome, soltanto Marlene, l’assistente di Petra von Kant trattata con severità e sadica indifferenza dalla sua padrona: il rapporto tra il regista e l’attrice dalla bocca piccola di una geisha e lo sguardo fisso e strabico, sofferente e arreso, era lì, prigioniero di un appartamento, intrappolato in un set.
«Umiliava continuamente Irm Hermann in pubblico sapendo del suo amore e del desiderio che l’attrice aveva di sposarlo, glielo aveva detto lui che si sarebbero sposati, così sosteneva lei con rabbia e amarezza, disillusione. “Buttati, che aspetti, troia”, le disse una volta lui quando lei minacciò di gettarsi dalla finestra per un altro dei suoi rifiuti espressi con nessuna sensibilità, la donna era al terzo tentativo di suicidio», Laura scuote la testa.
«Forse è stata solo un’overdose accidentale, cocaina troppo pura, troppi sonniferi, magari non aveva nessun rimorso, era solo un uomo orrendo che sfruttava i sentimenti di tutti», dice ancora scrollando le spalle. «E comunque lei alla fine se ne è andata. Il diritto del più forte, Fassbinder e Peter Chatel: il più forte è chi si fa comprare».
Ma quando chi è comprato non è più scelto, ecco che i ruoli si ribaltano. A un certo punto Fassbinder si sbarazzò senza tanti scrupoli di El Hedi ben Salem, l’amante alcolista e violento che aveva recitato in alcuni suoi film, e ben Salem accoltellò tre persone a caso a Berlino solo per attirare la sua attenzione. «Ne parleranno i giornali», disse ben Salem.
«Fassbinder, abbandonandolo a sé stesso, è come se avesse spinto Armin Meier, uno dei suoi tanti uomini, a uccidersi: nell’appartamento della Reichenbachstraße a Monaco mentre lui passava il suo compleanno in un ristorante di Parigi con l’ex moglie. Sembra niente, “Festeggiamo, noi due, dove abbiamo abitato insieme, almeno per oggi”, deve aver pensato il povero amante deluso fino allo sfiancato strazio, ma vuol dire tutto. Anche lui con i barbiturici».
Laura ha due cicatrici sui polsi e quando racconta a Kristen di Fassbinder, gesticolando, sembra che voglia farle notare alla sua amante.
Ingrid Caven, l’ultima notte di Fassbinder, chiamò per telefono il suo ex marito, ma lui non le rispose. Poche settimane prima lui le aveva chiesto di suicidarsi insieme. Lei pensava che scherzasse.
«Metto il volume basso, va bene?»
«Va bene».
«Un sussurro. Così che possa sentire il tuo respiro, i tuoi sospiri», dice Laura avvicinandosi al letto. Si mette in ginocchio sul lenzuolo e segue con un dito i contorni di un capezzolo di Kristen.Sul muro della cucina c’è un manifesto cinematografico, è quello tedesco di Katzelmacher di Rainer Werner Fassbinder: il regista e interprete del film tiene la fronte sul petto di Hanna Schygulla, i capelli le toccano la guancia, una mano è sulla sua pancia, poggiata aperta con delicatezza poco sotto il seno, tra l’indice e il medio ha una sigaretta, è vestito di nero, lei ha un abitino chiaro e corto, con piccoli disegni, pallini bianchi, la faccia e lo sguardo da bambola. Mi soffermo a guardare quell’immagine in questo appartamento sconosciuto, mentre lei, con un paio di calzoncini larghi sulle cosce, sono a quadri verdi su sfondo blu, e una canottiera di cotone a righe orizzontali rosa e nere che le lascia scoperto l’addome, a piedi nudi sul pavimento ancora fresco del primo mattino, prepara il caffè. Sul tavolo ci sono biscotti e un barattolo di marmellata all’albicocca.
I dialoghi tra Laura e Kristen sono tratti dal nuovo libro dell’autore di questo testo.