L’ossessione del successo

Un ricordo di Armando Saveriano, il poeta irpino scomparso il 13 gennaio 2022, la cui vasta opera è ancora da esplorare. Testo curato da Elena Deserventi. Ringraziamo il poeta Federico Preziosi per averci inviato questa testimonianza, in cui risuona la voce viva del poeta. La foto di copertina è di Giovanni Ruggiero.


Cercare di affermare la nostra identità e puntare la meta del successo, magari scegliendo l’accidentato sentiero in ascesa della scrittura, è un diritto inalienabile che non può venire contestato, giacché si tratta di una prerogativa universale, sana, ripeto legittima, un bisogno direi fisiologico. Tuttavia se l’aspirazione si trasforma via via in rabbiosa ossessione, cosa che avviene per tantissimi nullesianti, ovunque abbiano dimora al mondo, allora capitomboliamo malamente e tristemente nella patologia. Non riusciamo più a campare, non guardiamo più dentro di noi e attorno a noi, ma indirizziamo il collerico sguardo su chi a differenza nostra ha ottenuto (o almeno così appare, così ci sembra) quanto a noi manca: l’ammirazione generale, un contratto con una Casa Editrice non periferica, l’attenzione della critica à la page, vendite astronomiche del libro, riduzioni teatrali e cinetelevisive, danari a palate. Ecco quindi la rimonta letale di un nemico potentissimo, che produce ulcere non soltanto mentali: l’invidia. Noi neghiamo fortemente l’ipotesi di provare invidia, ce ne vergogniamo, ma questo canceroso sentimento prima o poi aggredisce anche il più umile e sensato di noi. Possiamo però combatterlo e ricacciarlo. Molto spesso il successo che arride agli altri è frutto indigesto di segreti compromessi: baratti, favori, vendita del proprio corpo, militanze politiche, ricatti e chi più può ce ne metta. Il problema è differente; occorre risalire a monte. Il successo, in qualunque categoria, da quella sportiva alla scientifica, dalla letteraria a quella dello spettacolo, dell’imprenditoria, della pubblicità, etc, se viene, ci gratifica grazie al nostro impegno, alla perseveranza, alla risorsa di opporre soluzioni nuove, e anche all’accettazione non furibonda della sconfitta; alla fiducia moderatamente ottimista in altre occasioni. Se abbiamo un obiettivo da raggiungere, facciamo pure del nostro meglio per ottenerlo, ma non trasformiamo le energie e le risorse impiegate nell’impresa in stressante pensiero fisso, in centralità quotidiana che respinge dietro di sé ogni differente compito, responsabilità, dovere, occupazione. Sia nel nostro caso la Poesia una cosa seria, e non un professato vezzo occasionale (come molti, schernendosi, sostengono: ‘Non sono un poeta’, ‘Per me è un hobby’- pietose bugie: si sentono invece grandi poeti, e offendono l’Ars Creativa trattandola alla stregua di un intrattenimento enigmistico). Sia, ripeto, nel caso nostro dedizione sincera e appassionata, la Poesia; studium, come dicevano i latini. Evitiamo tuttavia gli atteggiamenti drammatici, le pose da divi o da privilegiati. Dovremmo evitarle pur se fossimo tanti Evtusenko o tante Bachman. O dei Petrarca e delle resuscitate Dickinson. Per non incorrere nel ridicolo. Una cosa è la corretta consapevolezza dei meriti e dei limiti, una cosa è l’acromegalia dell’ego dissimulata dalle famigerate dichiarazioni ipocrite: “Non sono un poeta, butto giù qualcosa per puro diletto, mi diverto a comporre…’et similia. Torniamo al tema del successo. Prendo ad esempio, per tutti, Tristan Corbière, ma potrei anche indicare Dino Campana o lo sfortunato Eros Alesi. Corbière, poeta modernissimo, produsse un capolavoro salutato con tiepidezza, che solo nella posterità avrebbe conosciuto giustizia. Egli era in anticipo sui tempi: il gusto d’allora non era all’altezza di apprezzare la NOVITA’, l’alea, l’imprevedibile, lo ‘strappo’ rispetto alla convenzione. Perché, cari amici, dobbiamo capire, accettare, ammettere che per produrre l’opus importante, imponente, fondante, è fondamentale dare ai lettori/interlocutori qualcosa che non sanno già e che non si aspettano. Se scriviamo tutti più o meno allo stesso modo, come capita a tanta ragazzaglia che magari si classifica in premi di rilievo come il Camaiore (tanto per dire), allora non arricchiamo né stupiamo la Musa, la appiattiamo, invece, la immiseriamo. Il novum, la creazione sconcertante, l’urto che scompagina l’abitudinarietà della fruizione media, ed il talento, il quid insondabile e inidentificabile che conduce a questo, rappresentano i requisiti per un riconoscimento pubblico unanime (benché pareri e reazioni siano rarissimamente tali). E veniamo al nocciolo. Attraversare il più indenni possibile la Vita, fendere il meno nevroticamente e vulnerabilmente l’esistenza irta di brutture, cattiverie, iniquità, incidenti di percorso, lutti, alienazioni, lacune, richiedono il possesso di una maniglia alla quale aggrapparsi, di un’uscita di sicurezza, rappresentate da un valore, da una finalità, da un credo, da un atteggiamento propositivo non smodatamente ottimistico; ma, attenti, cari Poienauti, non basta. Necesse est applicare l’ardua risoluzione di un paradosso: non fondarsi totalmente sulle aspettative, contemplare, al contrario, l’ipotesi del fiasco, del fallimento, dell’indifferenza altrui, della noncuranza, della distrazione, anche quando non c’entrino la malafede, la gelosia, l’invidia sempre in agguato, sempre in prima linea. Perché il paradosso è controbattere gli immancabili sogni e le inevitabili attese, gli affidamenti, i desiderata, riducendone drasticamente la presenza e l’irradiazione in ogni momento della giornata e della nottata. Contraddittorio aver fiducia nella qualità del proprio percorso e del proprio risultato, affiancandolo alla serena e realistica considerazione del mancato ottenimento della soddisfazione finale. Come fare a non cercare ossessivamente il successo, a disinteressarcene davvero e non a fingere un distacco mitico, un aplomb ben lontano dall’esser stato conquistato nel nostro autocontrollo, nella nostra weltanschauung? Ecco il difficile, il quasi impossibile. Nutrire un’aspettativa senza ingigantirla, sigillare il rubinetto dell’ansia d’attesa. Cosa possiamo fare, dunque? Nient’altro che concentrarci con onestà e con obiettività sul nostro lavoro, non guardare agli altri con occhio infocato e con la cocenza della frustrazione. La competitività è uno stimolo, una spinta, una forza. L’osservazione dei campicelli o delle praterie altrui, in acre malevolenza, è l’invidia. Sempre a noi nociva.

È e resta una incognita la morte
non ha reporter o testimoni diretti
se sia passaggio a lietezza o a pena
come nelle fiabe che ci tramandiamo
si ignora
nonostante l’esca ingenua dei paradisi
e le adunche minacce di inferni strazianti
Sgomenta però l’eternità
di un bel godere allettante e dubbio
o del lacerante soffrire
o del nulla piatto
inconcepibile per la mente umana
L’occhio interiore si rifiuta si ritrae
e non sa e non può immaginarlo
l’eterno
poiché solo quel che tutto muta
conosce
Proni siamo tutti al destino
che domina chi accetta o si rivolta
il caso agisce senza scienza o intenzione
indeterministico
La sorte fortunata o avversa
è una vergine cieca e idiota
che siede a pescare e intrecciare
fili di vario colore
o come si diceva
bendata impugna una stecca
con cui sospinge qua e là una palla
e la rovina o i fasti
la gioia o l’infelicità
dal capriccio dell’imponderabile
dipendono
nonostante ipotesi intuizioni ipoteche
quel che avviene
imprevedibile si rivela
e come nell’azzardo
ci rende accaniti trepidi ansiosi
in balia di quanto può essere o mancare
Quel che programmiamo
ha sempre una sua falla
una serpeggiante crepa