La corsa

Nel buio della mia stanza, sprofondato nell’abisso del mio ego smisurato ed insignificante, è in corso l’ennesimo concilio di natura non ecclesiastica durante il quale le parti coinvolte non riescono a trovare un accordo ben definito.
Se poi si specificasse che le parti coinvolte sono in realtà l’ammasso indefinito di pensieri pensati e di pensieri plausibilmente pensabili contenuti all’interno della scatola cranica, che provano a dare un senso ad una vita tutto sommato fin troppo imprevedibile, allora si potrebbe tranquillamente arrivare alla conclusione che non siamo di fronte ad alcuna novità né ad alcuna forma di vita intelligente.
Vi è una sempre più crescente sensazione di irrequietezza sia nelle azioni sia nei pensieri. È come se la pseudo-quiete adolescenziale riconducibile ad un nido di pascoliana memoria si fosse evoluta inesorabilmente in un qualcosa di più grande e di invalicabile, in una non-quiete esistenziale dove il concetto di età non ha più ragione di essere. L’impellente necessità di correre verso qualcosa, correre oltre qualcosa o addirittura correre nella speranza di nascondersi da qualcosa: la stasi è un concetto neanche lontanamente applicabile alla persona scrivente.
L’analisi dei primi due concetti, “verso qualcosa” e “oltre qualcosa”, potrebbe essere fine a se stessa. Andare verso qualcosa, ma qualcosa cosa? Ma cosa qualcosa? Si parla di lavoro? Si parla di amore? Si parla di geografia? Si parla di geografie dell’anima? Non importa la natura di quel qualcosa, l’animo irrefrenabile dello scrivente è tale per cui l’importante è muoversi, la meta è solo un’indicazione utile a fini letterari. E fortunatamente qui di letteratura ce n’è ben poca.
Andare oltre qualcosa? Banale, ridondante. Abbiamo detto che la stasi è un concetto alieno dallo scrivente, da questo è facilissimo dedurre che pure se andiamo verso qualcosa e incredibilmente raggiungiamo questo qualcosa, il traguardo auto-imposto trasla automaticamente sempre più avanti, sempre sempre sempre più avanti. Ma non per imposizioni dall’alto o per forme oscure di coercizione: semplicemente perché la noia e l’adagiarsi sono due concetti proibiti e niente affatto percorribili da una persona nata a cavallo tra gli anni ‘90 e gli anni 2000.
Ma ora arriviamo alla parte succulenta, alla selva oscura: qui si va verso l’indefinito, quello che porta ai continui concili notturni di natura non ecclesiastica citati all’inizio dell’odissea linguistica ancora in corso. Una vita intera che lo scrivente scappa da qualcosa.
Inizialmente pensava scappasse dal liceo, perché diciamocelo, cinque anni ad ascoltare le continue lamentele dei professori sono tanti, a tratti usuranti. E quindi siamo scappati, ma non ci siamo salvati.
Successivamente pensava scappasse dall’università, perché diciamocelo, una triennale e una magistrale sono tante, a tratti usuranti. Le lezioni, i treni, gli esami. Le persone, le cotte, i rifiuti, le notti insonni. L’evoluzione dell’insoddisfazione esistenziale nata tra i banchi del liceo in perenne stato di mancanza. Lo scontro con l’autorità, vista in senso generale. L’incapacità di definirsi all’interno di un preciso spazio geografico e men che meno all’interno di uno spazio dell’anima.
E quindi siamo scappati, ma non ci siamo salvati.
E allora pensava scappasse dalla propria città, perché diciamocelo, e sapete il prosieguo. Le amicizie? Ma quelle andavano bene. La famiglia? Tutto bene, grazie. L’amore? Nulla di nuovo. Il lavoro? Sì, ma in fin dei conti nessuno si può lamentare.
E quindi? E quindi ancora una volta non ci siamo salvati.
La verità è che non ci salveremo mai, continueremo a scappare finché morte non ci separi. Ma in fin dei conti, pensandoci un attimo più attentamente, ci va bene così: la natura inquieta motiva l’azione e il pensiero, o almeno è la scusa che lo scrivente continua a ripetere ad alta voce.
È finito l’ennesimo concilio non ecclesiastico.