Prose

La fine del viaggio

Molto in alto e molto lontano nel cielo, invisibile per eccesso di luce, si erge la punta estrema del Monte Analogo. Là, sulla vetta più aguzza più sottile, solo, sta colui che riempie tutti gli spazi. Lassù, nell’aria più fine dove tutto gela, solo, sussiste il cristallo dell’ultima stabilità. Lassù, nel pieno fuoco del cielo, dove tutto arde, solo, sussiste il perpetuo incandescente. Là, al centro di tutto, sta colui che vede ogni cosa compiuta nel suo inizio e nella sua fine.

René Daumal, Le Mont Analogue

Non so se qualcuno di voi ha mai inciampato nel Monte Analogo di Daumal. È un romanzetto del 1944, rimasto incompiuto perché l’autore, un fricchettone francese fissato con la cultura indiana e l’alpinismo, è morto di tubercolosi prima di poterlo finire. Mi verrebbe da dire che anche così ha scritto comunque più che abbastanza. Perché quanto ha scritto è vero. Il contenuto del romanzo – l’isola in mezzo all’oceano, nascosta agli occhi del mondo da una sacca di spazio curvo che deflette la luce; la montagna altissima al centro di quell’isola; la vetta inaccessibile di quella montagna, che unisce il cielo e la terra – è tutto vero. E io son qui a dimostrarlo, perché sono una dei tanti che hanno provato – e sono riusciti – a raggiungere quell’isola. Mi sono imbarcata su una nave chiamata – come nel romanzo – Impossibile, diretta verso un punto ignoto ed ignorato nell’Oceano Pacifico. Ho visto la nave accelerare, penetrare nella sacca di spazio curvo – e il Monte Analogo innalzarsi sul mare, la sua vetta invisibile tra le nubi. Sono approdata a Porto-delle-Scimmie, l’unica città sull’isola, popolata dai discendenti di chi ha provato a scalare la montagna e ha fallito. Infine, dopo aver ricevuto tutte le istruzioni del caso, ho cominciato l’ascesa verso la cima, insieme ad una comitiva di altri venticinque. Sappiamo che in cima al Monte Analogo sta la risposta a tutte le domande, l’ultimo disvelamento di tutti i misteri; un luogo invisibile per eccesso di luce, dove ciascuno diventa quello che è; dove il mondo interiore e quello esteriore tornano finalmente a insieme, come all’inizio dei tempi.
Si dice generalmente che Daumal non finì mai quel libro perché tutto sommato non avrebbe mai potuto finirlo: non si può descrivere l’indescrivibile. Se una montagna unisce il cielo e la terra, puoi descriverne le basi, ma certo non la cima. Io preferisco pensare che non avrebbe mai potuto finire di raccontare quella storia perché la storia stessa sarebbe diventata, per lui fricchettone, insopportabilmente prosaica. Dopo anni che saliamo questa montagna, la compagnia ormai ridotta a cinque persone viste le difficoltà e gli abbandoni, eccoci finalmente all’ultima tappa prima della cima. Immaginatevi questi anni a fare alpinismo tra i più spietati – poco ossigeno, roccia e gelo, poco cibo, lavarsi mai, corde tagliate e orrendi precipizi, teste di cane e alberi di sangue (no questo no, sto scherzando), e l’insopportabile saggezza delle guide alpine di Porto-delle-Scimmie che ti trattano da occidentale ritardata, spiegandoti non so che fiaba stronza sugli stambecchi e sui fiori ogni volta che hai una domanda. La vetta è sopra di noi, ma è troppo luminosa per essere vista. Tutto questo ambaradan per scoprire che l’ultima tappa, anziché qualche prato nevoso tra costoni di roccia dove piantare le tende in verticale, è una stazione sciistica con albergo e ristorante.
Il Monte Analogo si è imborghesito. Come poteva essere raccontata, questa storia, da quel povero tisico?
Quando siamo arrivati alla stazione, increduli, abbiamo chiesto spiegazioni alle guide. Ci hanno risposto che va bene la menata dell’ascesa al metafisico e liberarsi del peso terreno per sublimare, ma ogni tanto per il pellegrino dell’ultraumano ci sta pure una doccia bollente e una cotoletta viennese. Da mesi ormai siamo ospiti di questo albergo, assieme ad altri trenta o quaranta tra nuovi arrivati e pellegrini di lunga data. In teoria possiamo riprendere la salita quando vogliamo. In pratica, qui stiamo.
Il centro della nostra giornata è l’ora blu. È quel momento particolare, prima dell’alba e subito dopo il tramonto, quando il sole è sotto l’orizzonte e il cielo si colora di una particolare tonalità di blu. Non ho capito se è una cosa che riguarda lo strato di ozono o è scritta in qualche poema in sanscrito, fatto sta che l’ora blu è l’unico momento della giornata in cui riusciamo a guardare la vetta del Monte Analogo senza esserne accecati. Io e Samuele siamo sempre i primi a comparire sul terrazzo dell’albergo, ben bardati col piumino e – alla bisogna – la bombola di ossigeno, che a quest’altezza scarseggia. Ci sediamo sulle chaise–longues con il nostro tè bollente alla menta sul tavolino. Intanto altri escono sul terrazzo, si sdraiano, chiacchierano, ci salutano. La vetta è sempre incandescente. Poi comincia l’ora blu, e quella luce accecante si sgonfia di colpo – il blu oceano invade il cielo, e davanti a noi, a pochi chilometri in verticale, ecco una punta di roccia nera, nuda, cosparsa di neve e ghiaccio, percorsa da un fremito oleoso ed elettrico – e sopra, tra la cima ed il cielo terso, ecco muoversi questa figura umana di dimensioni estreme, blu come il cielo ed avvolta in un mantello di nebbia che ne confonde gli orli. Si muove come un feto nell’utero, quasi roteando, nel silenzio dell’aria rarefatta. Eccolo, il titano – o uno dei titani – che sta sulla vetta inaccessibile. Ecco la nostra promessa, il dissolvimento della nostra finitezza di creature, l’infinito conoscere dell’eternità.
– Il Re del Mondo, mormora qualcuno.
Non resta che fare colazione – o cenare. Rientriamo in albergo e andiamo al ristorante. La commozione mi mette addosso una fame pazzesca e qui si mangia benissimo. A colazione, per esempio, di solito mi sparo un piatto con bacon, uova strapazzate, fagioli neri, pomodori e funghi alla griglia, , che annaffio con milk-shake al cioccolato; poi procedo con cinque o sei fette di pane burro e marmellata alle albicocche e chiudo con una coppa di gelato al mascarpone. Samuele mi guarda inorridito.
– Non mi ci abituerò mai, Milena, mi ha detto una volta.
– Secondo me è solo invidia, Sam.
– Invidia per cosa?
– Perché vorresti mangiare come un maiale anche tu ma sei lì col tuo yogurt magro al sapore di tristezza.
Samuele incrocia le braccia e sbuffa.
– Abbiamo appena visto la sublimazione della carne umana e tu pensi a mangiare.
– Non è colpa mia se la fine di tutti i desideri mi apre lo stomaco.
– E comunque lo yogurt non è al sapore di tristezza. È alla pesca.
– Ulteriore tristezza. Ma perché limitarsi? Chiedi al cameriere una cheesecake.
Sam si rabbuia.
– Tu sai che cos’ero prima di cominciare questo viaggio iniziatico, Milena.
– Certo che lo so.
– Ecco. Non penso tu possa prendermi in giro se, dopo anni di ascesa all’impossibile, guardo ai miei istinti e impulsi con… bè, con vergogna. E se desidero essere libero da loro.
Mi rendo conto di averlo offeso. Gli metto la mano sul braccio.
– Scusami, Sam. Ho parlato con leggerezza.
Mi sorride, mi prende la mano.
– Anch’io, in realtà.
– Perché?
– Mi hai raccontato quello che tu eri, prima di imbarcarti sull’Impossibile e venire qui. Se ora sei un trionfo di appetiti soddisfatti, bè, tanto meglio.
E dopo esserci ricordati che siamo due schifezze in cerca di redenzione, e quindi i rimproveri tra noi non esistono, la giornata può cominciare.
Passa al nostro tavolo la duchessa di Richmond, e ci chiede in perfetto italiano:
– Cari, oggi venite a sciare con me e Liliana?
– Sicuro, esclamiamo in coro.
Corriamo in camera, ci spogliamo e ci infiliamo mutande calzamaglia e canottiera, abbiamo un momento di smarrimento in cui ce li ritogliamo e cominciamo a pomiciare, Samuele mi fa riflettere sul fatto che è più divertente se copuliamo dopo una giornata a sciare, ci rimettiamo mutande calzamaglia e canottiera, poi pile e pantaloni e scarponi, gli do una pacca sul culo e cinque minuti dopo eccoci al piano terra a metterci gli sci sulla neve fresca.
La duchessa di Richmond è una bella signora sui cinquanta, grande sportiva, che dieci anni fa si è ammalata di SLA, e allora ha mollato tutto ed è venuta qui per accettare meglio la sua mortalità, magari anche per conoscere i misteri dell’universo e del tutto, che male non fa. La ammiro molto perché ha capito subito che questo è un viaggio iniziatico di conoscenza, non una gita a Lourdes. E sugli sci è pazzesca, pare una fisarmonica da quanto si piega bene sulle ginocchia. Non so se è perché qui effettivamente le malattie si fermano, o perché la sua malattia è strana e si aggrava quando le va.
La pista sotto l’albergo si dirama in una decina di piste minori, alcune in mezzo agli abeti, e finisce decine di chilometri più in basso, dove poi prendiamo la seggiovia per risalire. Il vento ci taglia la faccia e il sole ce la cuoce; meno male che Samuele insiste sempre con la crema e il burro di cacao. Nelle foreste spesso ci fermiamo, smontiamo gli sci e sediamo all’ombra di un albero, godendo il silenzio del Monte Analogo. Ogni tanto facciamo tappa sull’orlo di qualche precipizio e guardiamo verso l’orizzonte, dove non ci sono altre montagne e non si vede nemmeno il mare o Porto-delle-Scimmie, ma solo nuvole, nuvole infinite. Liliana, un’italiana di Ragusa che ha fatto amicizia con la duchessa quando ancora eravamo sull’Impossibile, tira fuori la macchina fotografica e fa foto per non so quanto tempo mentre io mi finisco il panino al ciauscolo e lattuga che mi ero preparata prima di uscire.
– Liliana, ma eri tu che la notte scorsa andavi avanti e indietro sul balcone della tua stanza?, ho chiesto.
– Sì. Ho messo il filtro notturno. Volevo prendere un po’ di Via Lattea.
– Son venute bene?
– Non avete idea. Aspettate solo che le sviluppi. Ma vi ho svegliati, ragazzi?
– No, ero già sveglia io e ho sentito i tuoi passi.
Sfrecciando nelle parti più pericolose delle piste, in mezzo ai massi, su discese quasi verticali, mi viene da pensare che in un battito di ciglia posso perdere il controllo dello sci e morire malissimo, e allora ciao viaggio iniziatico. Ma sono pensieri rapidissimi e, mi accorgo, non penetrano in profondità la mia corazza. Qualcosa della mia vecchia vita – prima di sbarcare su quest’isola – ancora mi resta: l’invulnerabilità all’ansia per un pericolo concreto. Il dolore della mente è più devastante e persistente di quello del corpo (un braccio rotto, per esempio?), perché a differenza del braccio rotto non ha quasi mai né motivo né limite. Questo mi ha resa praticamente inattaccabile dal panico o dalla paura. I depressi, dicono, sono sempre lucidi nelle situazioni di emergenza.
Col tardo pomeriggio prendiamo l’ultima seggiovia e si rientra in albergo. Sudati, zozzi e odorosi di creme, io e Sam finalmente copuliamo, in piedi come due ingordi, poi doccia, poi ancora copuliamo, poi altra doccia e arriva l’ora dell’aperitivo nel salone dell’albergo, in attesa della cena (yum!). Il grande salone di legno si riempie dopo le sei di sera; girano bombardini, Glühwein, creme al caffè e alla vaniglia, grog e sidri di mele speziati. Samuele si perde in chiacchiere con Yujie, un ragazzo taiwanese con cui parlerebbero per ore di motociclette. Io mi apparto con la duchessa di Richmond e le chiedo se fa a metà con me di una fetta di Sacher.
– Tesoro, ma sei veramente una fogna.
– Embè? Qui sul Monte Analogo mangio senza ingrassare. Così come tu hai una malattia mortale che non progredisce e non ti uccide. Ci saremo pure guadagnate qualcosa, in questo interminabile viaggio iniziatico.
– Sicuramente nessuno di noi è più lo stesso di quando è sbarcato a Porto-delle-Scimmie, commenta la duchessa pensierosa.
– Io ho trovato risposte a molte delle mie domande.
– Bè, questo è molto bello.
– Ma anche tu, no?
– Sì, oddio, io più che domande in senso generico avevo in mente di comprendere, diciamo di abbracciare la mia mortalità. E finora mi è parso di esserci venuta a patti. Manca ancora qualcosa, però.
– Cosa?
– Ma, Milena cara, manca l’ultima tappa. La vetta. Se mai un giorno avrò il coraggio di ricominciare a salire!
E si intristisce. Le confesso:
– Samuele ieri mi ha detto una sua fantasia.
– Quale?
– Vorrebbe tornare a Porto-delle-Scimmie e aprire un’officina. Fare il meccanico.
– E tu?
– Con lui a Porto-delle-Scimmie, a fare qualunque lavoro mi venga in mente. Un appartamentino insieme, i fiori sul balcone.
– I fiori.
– Le rose. Gli piacciono molto.
La duchessa dà un molto beneducato colpo al tavolo con il palmo della mano.
– Mannaggia a questo posto. Non sono mai stata così felice in vita mia e vorrei non esserci mai entrata.
Ci chiamano per la cena e raggiungo Samuele. Chiedo al cameriere insalata greca con lo tzatziki e la feta e le cipolle, cotoletta alla viennese (due), contorno di frites con salsa rosa e maionese, cipolline alla griglia e olive ascolane, pannocchie arrosto con strato di burro, una o due porzioni di certi pomodori che se ci metti un pizzico di sale e un filo d’olio io non so cosa mi succeda ma ne mangerei a quintali, due belle pere Abate e una fetta di torta di mele da tocciare nel gelato alla crema. Non vedo l’ora che sia venerdì, fanno il pesce.
Dopo cena siamo coinvolti in partite a burraco, letture di Emily Dickinson, ogni tanto un concerto se Yujie se la sente di tirar fuori il violoncello. Yujie non riesce a togliersi quel sorriso imbarazzato dalla faccia, è molto timido – solo Samuele riesce a farlo parlare. Mi trovo spesso, quando suona il violoncello, a fissargli i piedi affusolati e le dita come gocce di pane fresco e morbido (suona a piedi nudi, è un po’ fricchettone). Ho confessato a Samuele che a volte vorrei prenderli in grembo e passarci sopra unguenti. Lui ha riso molto e mi ha detto che l’importante è che non provi a morderli, ché a Yujie servono. Ma insomma, a una cert’ora siamo davvero stanchissimi; io e Sam torniamo in camera e ci mettiamo sotto le coperte del lettone per dormire tranquilli. Sentiamo ancora nelle gambe il fantasma del movimento a destra e a sinistra, per fare la serpentina sugli sci.
– Sono felice di averti incontrato, mi fa, a luci spente.
E cerca sotto le coperte la mia mano, stringendola.
– Ho tante cose da dirti, Milena.
– Anch’io, Sam.
– Non ti merito.
– Non moralizzare!, lo ammonisco.
– Le cose che ho fatto sono troppo brutte, Milena.
– Sì, ma era prima che venissi qui. Qui tutto è cambiato. E non parlare di meriti o colpe. Non hanno senso. Nemmeno sul Monte Analogo.
Con quest’ultimo giro di pensieri lo stronco: dopo qualche minuto lo sento respirare debolmente, regolarmente, nel sonno del giusto. Lo bacio e lo lascio dormire.
Ma io non chiudo occhio per tutta la notte. Mi siedo sul letto, lo guardo. Mannaggia a lui, e mannaggia a questa trappola in cui siamo finiti. L’ultima difficoltà sul percorso iniziatico non è quella che cerca di ucciderti, è quella che ti rende felice, e ti impedisce di progredire.
Sam non si perdonerà mai di essere stato un violento. Di avere ferito e ucciso altre persone. È entrato e uscito di galera tante volte. A guardarlo con gli occhi di chi è da anni in questa prova di alpinismo metafisico, si vede solo un ragazzo pieno di tristezza, che non sapeva veramente chi era, cosa voleva, o perché finiva sempre per ammaccare nasi, bucare pance o premere grilletti. Dopo l’ultima condanna qualcosa dentro di lui ha fatto crac. È evaso di prigione ed è scappato quassù. Me lo ricordo bene, prima sull’Impossibile e poi all’inizio della scalata. Era disperato, voleva trovare una via di fuga, spegnere il suo cervello in sovraccarico che gli imponeva di ripetere sempre lo stesso schema – liberarsi da tutto il male che aveva fatto. Dopo sforzi immensi arriva fin quassù, ci accorgiamo che ci vogliamo bene, e lui è un’altra persona, non c’è che dire – tanta della sua sofferenza e cattiveria sono evaporate, le ha vinte. Ma non è finita qui. Sam non si può fermare qui, dopo tanta fatica, proprio a un passo da quello che sta veramente cercando.
E nemmeno io posso farlo.

Mi alzo che è quasi l’alba, mi vesto, vado alla finestra. È l’ora blu. Esco sul balcone, avvolta nel piumino, e guardo verso l’alto. Il feto immenso è lassù, blu come l’oceano, e la vetta è a poca distanza. Samuele spesso si riferisce ai miei appetiti. Assieme alla duchessa, è l’unico a cui ho confidato che sono stata depressa tutta la vita; che l’ho passata a voler morire, a non desiderare e a non godere. È felice che io mangi, mi diverta a sciare, vada a letto con lui. Gli sembra che io sia rinata. E per certi versi lo sono, ma non posso dimenticare il desiderio più grande, che avevo prima di cominciare la scalata, e che ora mi rimbomba nel petto con più forza che mai.
Quando l’ora blu finisce, e il sole fa capolino a oriente, sono già fuori dall’albergo, attrezzata per l’ultima salita con zaino, piccone, corda e scarponi. Ho lasciato un biglietto per Samuele. So che capirà. Mi dispiace, mio Sam, ma questo viaggio è più grande dell’amore. Io, come te, sono in cammino verso l’ultima verità, verso la conoscenza finale. Questo è il mio primo e più grande desiderio: finire questo viaggio, e finalmente cominciare la mia vita.
E con questo ultimo pensiero, mi avvio verso la vetta.