La libellula
Una menzogna senza intenzione
è una verità possibile.
Mi chiamo Tina e abito in periferia, a un chilometro di distanza dal centro dove si trova la casa dell’avvocato. Vivo con i miei genitori che ormai sono anziani. Dietro la mia abitazione si apre un fazzoletto di terreno in cui pianto lattughe, cavolfiori, pomodori, zucchine, melanzane; vicino al pozzo c’è un albero di pere, ogni pera appesa all’albero è un pezzo di me stessa e nell’insieme delle pere acerbe ci sono io, tutta intera. Guardo sempre l’acqua del pozzo che – trafilando attraverso le pareti rotonde – cade giù nel fondo e comincia la lenta rotazione. Sulla sua superficie, seppur lontana, vedo specchiata la mia pancia. Poi alzo gli occhi e una palla di luce mi colpisce con i suoi raggi, ma non apro più la bocca – come facevo da bambina – per farmela riempire di sole fino a starnutire. Mentre il cielo si restringe dentro il pozzo, per poter sgusciare da qualche altra parte, mi sento leggera come la libellula che libra vicino a me.
Il frutto del mio grembo cresce e sta bene, si trova in fondo al pozzo, e ogni giorno lo alimento attraverso il cordone ombelicale. Il frutto del mio grembo è una bambina e io sono la matrioska che l’avvolge. La mia bambina è viva e sta dentro il pozzo, e dentro il pozzo c’è l’acqua, e la mia bambina diventa l’acqua che nutre i pomodori. Quando il livello dell’acqua si alza per le abbondanti piogge, sulla superficie riesco perfino a scorgere delle increspature che si dipartono in cerchi concentrici per poi morire sulle pareti di pietra che incamiciano il pozzo. Sono larve e prima che diventino libellule – ho letto in un libro – possono stare per anni in mezzo all’acqua.
Quando vado a casa dell’avvocato, tutti mi guardano la pancia. Sono orgogliosa della mia pancia, tutti devono sapere che anche io ho la pancia gonfia – come l’anguria rossa che innaffio d’estate – da mostrare a tutte le donne del paese e al cielo.
La bambina che porto in grembo è mia e sono disposta a difenderla coi denti. Non ricordo più quanti anni avevo quando ho cominciato a desiderarla. Adesso sta dentro il mio grembo, ed è come se ci fosse da sempre, e nemmeno per un attimo ho pensato di non finire la gravidanza o affidarla ad altri dopo il parto. So cosa dicono di me le malelingue: la scema si è fatta mettere incinta, la scema che non sa badare a se stessa partorirà una creatura dal destino segnato.
Ma da un albero malato possono venire fuori solo frutti malati? Quello che dicono su di me non mi importa, vado dritta per la mia strada.
E, forse, un po’ scema lo sono per davvero, ma anche una donna scema può essere madre, perché l’amore che dà alla propria bambina va oltre il suo essere scema. So che faranno di tutto per togliermi la mia bambina, ma non glielo permetterò perché una figlia è il sollievo al dolore di una donna, e il dolore di una donna è inevitabile.
Dovranno farsene una ragione.
Il giorno in cui partorirò questa figlia femmina scapperò nel buio della notte portandola con me, prima che il drago me la strappi via.
L’avvocato ha cinquant’anni, il doppio dei miei, ma per me l’età non è un problema.
Mi sono innamorata di lui quando, ancora adolescente, mi recavo con mia madre nella sua casa per fare le pulizie. Sin da piccola andavo sempre dietro mia madre, senza mai allontanarmi dal suo ombelico. Lui era bello e aveva una donna che non lo voleva.
Un giorno pioveva e mia madre aveva finito di fare le pulizie. C’era un forte temporale e l’avvocato si offrì di accompagnarci con l’auto. Durante il tragitto – seduta nel sedile posteriore – mi sporsi in avanti e appoggiai la testa sopra la spalla del sedile anteriore sinistro, a pochi centimetri dalla sua faccia. Respirai l’odore di quel viso che non se ne andò più. Quell’odore poi si fece pensiero, e il pensiero si fece seme, e l’odore cominciò a diventare seme che germogliava dentro di me come un frutto.
L’avvocato percorse un tragitto più lungo di quello che facevamo a piedi quando tagliavamo per una viuzza. Quel breve lasso di tempo fu una somma infinita di istanti. L’ultimo pezzo di strada non era asfaltato, e nemmeno le vibrazioni delle buche mi svegliarono da quell’anestesia. La macchina si fermò davanti lo spiazzo della nostra abitazione.
Intronata, siamo arrivati – disse mia madre, tirandomi per un braccio.
Scendemmo e mentre la macchina faceva retromarcia, e andava rimpicciolendosi, sentii addosso quell’odore irruento di maschio che dalla testa passava al cuore per continuare la sua corsa su tutto il corpo.
Nei giorni in cui vado a fare le pulizie sento che fa delle richieste mentre parla al telefono, e immagino la donna – a cui sono rivolte le richieste – dall’altra parte della comunicazione. Poi guardo il Cristo della croce: sembra suggerirmi di aspettare, ché quelle richieste sono indirizzate a me, solo che ancora non ha il coraggio di rivolgermele.
Poi arrivano le graffianti parole nere, e oltrepassano le mie orecchie sorde. Il matrimonio dell’avvocato – previsto per sabato – è la fine del mio aspettare, e come una pera matura cado dal ramo.
Ho aspettato per tanto tempo, ho aspettato il momento in cui la destinataria di quelle richieste fossi io, il momento in cui mi chiedesse conto del frutto che contiene il suo seme.
Quel matrimonio è un ago che buca la mia pancia piena di una gravidanza annosa, e sempre in attesa.
Quell’uomo mi ha ingravidato, ma non si è mai accorto della mia pancia: un uomo che non si accorge della pancia di una donna come può amare tutta la donna? Un giorno si scuserà per non essersi accorto della mia piccola anguria rossa, frutto del suo seme; ma sarà troppo tardi.
Quando finisco di lavorare torno a casa e, dopo aver accarezzato dolcemente la pancia, vado nell’orto. Apro la bocca il meno possibile, come facevo da piccola col sole, per non starnutire il frutto che porto dentro. Nel mio orto sono libera, libera di essere anche quello che non sono. La pompa sommersa, infilata sotto il pelo libero dell’acqua, succhia con avidità il liquido del pozzo, per dare da bere agli ortaggi. Sulla superficie dell’acqua le larve aspettano di diventare libellule luminescenti.
Entro nel magazzino, tolgo la maglietta, e mi accarezzo la pancia. Vado all’angolo e prendo un martello dal banco da lavoro. Mi dirigo di fronte allo specchio ovale e guardo l’inganno riflesso. Assesto un colpo deciso, al centro dello specchio, plasmandolo in una ragnatela di tessere a forma di pera capovolta.
Vado al pozzo, fisso un punto basso dentro la parete, e penso al momento in cui vedrò il fondo. Questo momento mi fa paura, e più passano i giorni e più penso che dovrò risolvere la questione, prima che la pompa sommersa – appuntita e sottile come un ago – succhi tutta l’acqua lasciando il fondo nudo e fatto di niente. La pietra dura non lascia rifuggire il mio sguardo: sembra un guardiano che mi invita a entrare.
Salgo sul bordo del pozzo e mi siedo sopra l’orlo, con le gambe penzoloni.
Il tempo… ho avuto tanto tempo mangiato dal topo non ho saputo aspettare… ho aspettato troppo… è tardi quando prima era presto e non è mai stato niente come l’acqua del pozzo… quando la bevi finisce e poi non rimane nulla ma poi ritorna… ho sete e io non decido e non aspetto pensando di aspettare senza treno parto dove arrivo senza saperlo cammino a piedi e sono ferma immobile sopra il pozzo e non vedo il fondo perché sono io il fondo dei fondi e dietro c’è altro fondo prima di arrivarci non posso saperlo fino a quando il cielo illumina le pietre del pozzo… posso vedere l’acqua e l’acqua si fa vedere e la figlia che mi aspetta è vita che non ho avuto fino alla partenza… sono una pera matura che cade a terra e diventa utero insabbiato che marcisce al sole pieno di vento e senza tempo e senza uomo e senza niente come una libellula appena nata che incanta e subito muore prima di diventare pera matura capovolta senza semi. In un attimo tutto diventa fondo e sotto il fondo troverò mia figlia avvolta nel desiderio.
Sento un richiamo intenso, proveniente dal fondo del pozzo, che mi costringe a spalancare la bocca. Mentre cerco di tenere le mascelle serrate, le mie acque si rompono. Il mio corpo viene risucchiato all’interno della pancia fino a diventare seme del frutto mancato.
La libellula si alza in volo, e con la sua danza comincia a inghiottire tutto il cielo, fino a scomparire e diventare ali trasparenti.
Solo delicate ali trasparenti, come trasparente è stata la mia vita.