La scoperta

Era una notte d’estate, silente e al tempo stesso brulicante di voci confuse, solitaria e insieme popolata di mille presenze. Ero io a contenerle. Sentivo che la mia identità andava sfaldandosi nel buio e che mi erano rimaste, nel corpo, solo strane sensazioni – nuove, insolite – che avevano slancio in me e lottavano per rendersi manifeste e farsi parola. Il mio pensiero aveva un nome e sembianze umane; il sentimento era invece incastrato tra le lettere, celato e indistinto, e ogni parola giungeva ai miei occhi povera, inadatta, spoglia di ogni essenziale verità. Desideravo, con la mia scrittura, essere acqua limpida, luce negli anfratti, misurare con cura lettere e sillabe, fare attenzione che nessun pensiero potesse disperdersi; e non solo: desideravo anche essere penombra, mare impetuoso, dislocarmi da me e al contempo ricongiungermi al mondo, quel mondo che mi ignorava e osservavo frammentato tra le imposte semichiuse. Le parole, a quel tempo, erano capaci di svelare ogni segreto, guarire ogni silenzio, lenire gli antichi dolori – e ossessivamente una frase di Anna Maria Ortese mi disturbava: Dicendo la pena, la pena se ne andava – e così era per me: un tentativo strenuo e costante di scrostare dalla pelle il dolore come si spazza la polvere dal davanzale. Scrivere era emigrare, conoscere e più di tutto capire, tuttavia quella notte io scrivevo senza sapere cosa avevo dentro, inseguivo la mia grafia infangata e irregolare non cogliendone il senso. Non mi capivo, malgrado mi ascoltassi; mi abitavano voci straniere e suoni e rumori di luoghi sconosciuti oppure, forse, il caos di mille città mi si era coagulato dentro. Strabordava da ogni parte un sentimento ignoto e per mesi, ricordo, vissi inconsciamente, quasi in dormiveglia, senza sapere. Volevo scoprire ma anche proteggermi: un tormento maggiore di ogni altro attanagliava i miei pensieri. Più provavo a salvaguardarmi dalla paura, meno la pena si acquietava; si faceva, anzi, insistente e caotica. Se per non udirla alzavo la voce, lei urlava; se per liberarmi mi dimenavo, lei mi picchiava; se provavo a scacciarla, lei metteva radici. Dunque mi arresi, e vissi così, senza sapere, finché non guardai negli occhi cosa mi cresceva dentro e finalmente capii.