La tela di Svevo: un romanzo di Alessio Rega
Le carte sono decisamente scoperte. Il protagonista del romanzo di Alessio Rega si chiama Svevo. E Italo Svevo è l’autore del famoso Senilità, uscito a Trieste nel 1898: Emilio Brentani si innamora della giovane Angiolina. Anche il protagonista de La tela di Svevo si innamora della giovanissima Anna, poco più che ventenne. Ma le somiglianze tra i due libri finiscono qui. Dalla Trieste di Italo Svevo veniamo calati in un’altra città dell’Adriatico, o meglio nella provincia: a Molfetta. Emilio Brentani è un assicuratore, mentre Svevo è un pittore affermato e ormai anziano; Angiolina è una ragazza “leggera” mentre Anna è una promettente arpista. Angiolina si prende gioco di Emilio. Anna invece ricambia l’amore di Svevo, anzi incoraggia l’attempato corteggiatore preoccupato per la differenza d’età. Svevo (il protagonista del romanzo di Alessio) è rimasto colpito da una foto di Anna pubblicata su un giornale per la forte somiglianza con Sophie, il suo grande amore del passato. E il romanzo si gioca su due piani temporali: da un lato, in presa diretta, scandito, nei titoli dei capitoli, dai mesi o dalle date, la storia con Anna; dall’altro il riaffiorare del lacerante passato, gli anni a Parigi con Sophie. Il lettore trascorre quindi, condotto sapientemente dall’autore, da una dimensione all’altra, da un’ambientazione all’altra.
Ma è dal presente che si apre il romanzo, nel momento in cui Svevo è in pieno blocco dell’artista, con la sindrome della pagina bianca, che in questo caso è una tela, che sarà poi colmata dal ritratto di Anna nuda all’arpa: “La tela che ho davanti agli occhi è ancora bianca. Mi fissa inespressiva, in attesa del miracolo della creazione. Nella mia mente si aggira un’intuizione che non ha ancora preso forma, un’immagine priva di contorni, viene da quel limbo sospeso e vertiginoso di ciò che non è ma che sta per essere” dice in prima persona il protagonista, per chiosare, aristotelicamente: “È potenza, e neanche oggi sono pronto per trasformarla in atto” (p. 11).
Subito dopo, si riavvolge per un attimo il nastro, ricollegandolo fulmineamente al passato (a quella Parigi qui non ancora nominata) che compare nell’epifania del presente: “Eppure Molfetta mi è mancata in ogni attimo di distanza. L’esplosione di luce sul bianco del duomo che domina il porto, l’avio del mare che si confonde all’orizzonte con l’azzurro più chiaro del cielo, la primavera mediterranea con la sua brezza morbida che scompiglia a malapena i capelli e smuove le vele delle barche che faticano a prendere il largo” (p. 13). E qui lo sguardo del pittore disegna con le parole il quadro del suo paesaggio fisico ed esistenziale. Al centro dell’intreccio è un lavoro che gli viene commissionato al suo paese: il quadro di una Madonna per il Corpus Domini di Molfetta. Ed è qui che nascono le sue difficoltà a mettersi al lavoro, facendo spazientire i committenti dell’amministrazione comunale che tengono molto all’opera dell’affermato ma schivo artista, che di sé stesso dice: “Io ho sempre preferito la libertà della mia solitudine inconsolabile, le sedie vuote in casa, un letto dove risvegliarmi in compagnia della nostalgia, i pranzi in piedi davanti a una finestra affacciata sul Tevere o sulla Senna, con i due paesaggi che si confondono nella memoria”. Ma è proprio la visione della foto di Anna sul giornale che muove e smuove finalmente l’artista: “An-na. Mi ripeto il suo nome tra le labbra schiuse in un sorriso. La mattinata in fondo non è andata perduta, ho trovato la mia Madonna”. È per incontrare lei di persona, che dovrà esibirsi all’arpa, che accetta un invito a tradimento per mostrare finalmente in pubblico la sua opera. Ma il contesto mondano lo disgusta. E qui, all’interno di una vicenda artistico-sentimentale, si innesta una nota di costume – sarcastico-grottesca e insieme crudamente realistica – sul “bel mondo” di provincia: “C’è il sindaco Cantatore con i suoi assessori e consiglieri. Sono qui a pavoneggiarsi per aver da poco vinto le elezioni, sebbene a stento e con molti compromessi. C’è il notaio Giancaspro, vicepresidente della confraternita, notoriamente usuraio e puttaniere, insieme all’avvocato Gadaleta, ultimo rampollo di una dinastia del foro, noto per aver superato il concorso solo alla terza raccomandazione di ferro. I fratelli De Santis, costruttori edili e affaristi senza scrupoli, che hanno dichiarato fallimento per poi ricominciare alle spalle di decine di famiglie sul lastrico. Ecco i primi volti che mi occupano gli occhi” (p. 25). Dicevo “provincia”: una realtà, questa, che non riguarda certo la sola provincia.
Ma se il richiamo del proprio paese è forte, nonostante queste contraddizioni interne, anche la metropoli straniera ha ovviamente il suo fascino, e non può essere diversamente trattandosi di questa città, un fascino controverso, che al suo interno nasconde anche altro: “Quando vivevo a Parigi amavo andare in giro per i mercatini delle pulci. Su tutti preferivo quello di Saint-Ouen. Mi divertivo a scovare vicende dimenticate nascoste dentro bauli polverosi, a farle diventare mie fantasticandoci sopra, dopo aver contrattato con i rigattieri pronti a disfarsene per due soldi. Molte delle storie urlavano desolazione, sgomento, solitudine, rabbia” (p. 45). Ma anche Svevo, come abbiamo visto, scava nel bauli della sua memoria, e non è detto che la ricostruzione del passato non sia frutto della fantasia, così come a sua volta il presente può essere una costruzione in qualche modo fantasmatica: “Nel pomeriggio Anna viene a trovarmi di nuovo a casa, regalandomi l’unica pausa di serenità della giornata. È stata via di nuovo, per un paio di settimane, e i nostri incontri si sono ridotti a episodi incastonati nella sua assenza strutturale. Sta facendo strada, la piccola arpista talentuosa. La sua presenza illumina tutto ciò che le sta intorno, un regalo che non speravo di poter ricevere, a questa età in cui non conviene fare progetti a lunga scadenza” (p. 77; per comodità di trascrizione ho accorpato due capoversi). Ma la consapevolezza della vecchiaia non frena il desiderio nel quale accanto al sospetto di un possibile tradimento, il corpo della nuova donna sembra cancellare quello del grande amore passato: “Dev’essere stata con un altro uomo mentre era via. Glielo chiedo fingendo che non mi interessi, che possa sentirsi libera di chiacchierare di sesso come farebbe con un amico. Anzi con un vecchio amico. Lei sorride una conferma che fa scomparire ogni traccia di autocommiserazione, scompare Sophie e scompaiono la vecchiaia e il tempo che passa. Vorrei leccare Anna fino a farmi bruciare le labbra, stringerla forte a me, fondermi con lei, insegnarle la passione strafottente” (p. 78).
Il romanzo si caratterizza sempre più come una riflessione sull’esistenza, sulla passione, sul tempo che passa, sulla irrinunciabilità della vita pur con le sue delusioni e sofferenze. Un disperato aggrapparsi ad essa anche quando i giochi sembra(va)no ormai compiuti e i conti già tutti fatti. Anche se alla fine, questo può non riuscire, e la svolta degli eventi sorprenderci, ma non sveliamo nulla.
Le ultime parole del romanzo sono: “è la vita che ricomincia a pulsare e non smette di sorprendere” (p. 142). Nonostante tutto.