L’io
Sogno un mare bianco, salto lo scoglio stanco. Salto e tremo sul basalto nero, ne rodo le fessure, ne fendo i vertici e muovo e muoio sopra i sassi come un leone d’inverno.
Ieri ho battuto la testa, ho ammaccato la fronte, la corteccia, il lobo prefrontale. Ora la realtà mi fugge dalla testa e corre, ch’è acqua dalla feritoia della diga rotta. Il mondo mi scappa, s’increspa.
La mia realtà esce fuori, gocciola, perde, non posso più essere al di qua di me.
K. era fuori di sé, barcollava, colava dal capo una materia opaca fatta dal sangue, l’egemonico e i desideri. L’hanno visto uscire così dal bosco: l’ha sputato fuori un sussurro buio, una voce di madre. Il sangue sull’erba fa macchie scure, incolla insieme le foglie, lascia quelle tre gocce la traccia dell’animale. K. era diretto alla tenda a mezzo cono della sciamana. Nel mentre si perpetrava l’emorragia: le pareti all’interno si gonfiavano – con uno sguardo diafano, a volerlo, si sarebbero viste le pareti umide degli organi ingrossarsi, mostrare il radicamento affiorante delle arterie quasi per estenuazione. Si addensavano i grumi sotto la pelle dei fianchi, gli coprivano il dorso poco alla volta, il liquido appiccicoso gli corrodeva la pelle da fuori, e subito dopo subito sotto spuntavano infiorescenze di rovi e di fasci affollatissimi di piccoli funghi – i rilievi collinari delle vertebre cominciavano a pulsare dalla tensione, ribollivano come le sacche d’aria della zuppa densa.
«Entra», dice la voce di donna sull’uscio, «chinati, la volta è angusta».
«Sole che sani ogni vista…».
«Non c’è vista che io sani, turbata o meno che sia».
«Ma non vede, la mia mente».
«Non vedrà».
K entrò nella tenda – iniziò una lieve pioggia nello stesso istante, le foglie frustate dall’acqua serbavano rabbia e fastidio. Era piacevole sentire gli aghi pesanti sul telo teso.
Diceva a se stesso che la cosa più sensata da fare era passare le dita sulle pareti di
cuoio-juta percorrendo tutta la circonferenza interna, premurandosi bene di inarcare le dita al modo giusto per sentire bene sulle punte le trame a croci e reti quadrate.
È sempre stato così. Sempre a far pressione sull’angolo superiore dei libri per inclinarli e vedere di sbieco la copertina a scritte incavate dorate consumate dalla polvere, per poi rimetterle a posto, come se nulla fosse successo – come se ogni gesto fosse incasellato nell’inutilità dell’automatismo, l’automazione piano costruita nelle mani dell’uomo curioso che deve tastare, per guardare; guardare per gustare; gustare per gustare ancora e guastare il senso della cosa fino a ripetere con l’oggetto dopo ancora, per tutta la confusione del mondo.
Ora la mano voleva riposare, adagiarsi nell’alveo dei fianchi.
Il giaciglio, l’altare del sacrificio è accogliente.
«Sdraiati», disse la voce di donna, di madre, che forse lo osservava dal primo passo fuori dal bosco; da quella prima volta, anni fa, in cui la sua mano toccò le venature dei rampicanti secchi scheletrici e relitti sulle cortecce; dal primo insetto disorientato dal vento del suo respiro; dal primo rantolo di rabbia fatta di tavoli rotti e alberi straziati.
Il suo corpo affranto macchiava tutte le cose, sulla strada strisciava la macchia fatta solo di colore. Il colore grigio traslucido invadeva le fessure delle cose, si insinuava negli interstizi della terra, dava pennellate veloci alle pietre, rifletteva la luce della luna di ogni tempo, imprimeva chimicamente l’immagine dell’avambraccio sinistro di un pastore lontano, che emetteva luce e arrivava all’astro e andava al colore e ardeva sul carbonato di calcio fino a lasciare l’ombra in negativo.
«Il letto di pietra assempra il mio corpo: mi aspettavi da quando io sono io, da quando io ho la mia forma, dall’omicidio preterintenzionale della nascita».
«Io non aspetto – la forma dell’altare è già sul tuo corpo».
«Come puoi guarirmi, se non mi conosci?».
«Non c’è nulla da guarire, se non la convinzione stessa dell’esistenza della guarigione».
«Guariscimi dalla mia convinzione, dalla mia volontà, allora. È una vita che seguo la sua coazione: non so essere libero, non so smettere di contare tutti i peli della mano, non so smettere di camminare solo a tempi andanti, di guardare fisso il sole fino a spegnermi, di spazzare da terra i peli di gorilla e le unghie dei topi, di incollarmi le dita con la colla, di incollare sul collo tante teste diverse, con la colla, con le dita, di incollare la colla sul collo con le dita incollate dalla colla. La mano ormai non decolla più dai fianchi, la vista stanca decolora il mondo, incolla tra loro le cose con i flussi di collante grigio, stillanti al modo delle lacrime e dei raggi di luce dall’occhio. E l’occhio che anch’esso si incolla come le dita e la testa e il mondo e il resto dopo il mondo incollato e incolore».
La voce di donna porse a K. una ciotola consunta – recava le tracce della scorza di frutto da cui fu intagliata e le macchie concentriche delle zuppe anteriori. Non disse nulla.
K. bevve la pozione acida senza domande. La voce di donna ora arrivava da fuori, come il lontano e costante coro delle voci del mondo.
Sono dentro di me, e il mare grigio continua a prosciugarsi in senso orario verso il buco centrale a spirale. Suppongo che questo possa essere un incubo o una felice passeggiata sulla battigia a seconda di come il caso imporrà alla mia mente incollata di far andare le cose. Già mi vedo alla vertigine dell’interfaccia con l’aria, sommerso nel colore con le venature rossicce del sangue, che non si mescola e danza come lenta medusa, a bramare le possibilità del respiro. Già mi vedo a strapparmi i peli del naso, gettare il cerume, escoriarmi le braccia con i denti per perdere peso e tornare a galla grondante sangue e altra materia cinerea. Ma la volta a emisfero della notte della mente non è altro che il cielo sopra le praterie, e i bisonti, e le mosche sui loro dorsi. Gli spiriti ancestrali cavalcano nel cielo nella loro caccia selvaggia.
«Quanti lati ha una sfera?», disse la voce dal fuori, o dalla notte.
«Quanti ne ha il cielo», rispondo.
Il liquido dell’io è sospeso tra due boccette comunicanti; sulle etichette, a matita – per evitare che la condensa diluisca l’inchiostro – c’erano le diciture “dentro”, per quella a sinistra, e “fuori” per quella a destra – o viceversa, se ci si mette dall’altro lato.
L’io assomiglia a questo liquido denso, iridescente ma argenteo e incolore. Con esso migrano da un lato all’altro l’entusiasmo, la coscienza, l’odore di pelle sudata e la voglia di amarene. K. era nuovamente fuori, ma la tenda non aveva pareti – era seduto al tavolo del suo soggiorno a fare tutte le sue colazioni con latte e avena. Non importava come ci fosse arrivato o se fosse pazzo – quest’ultimo era al più l’unico vantaggio.