Lo spazio
Gli scarafaggi sfilavano al di sotto della porta in ferro, cuori piccoli di malinconia che si allungavano dentro una pista di luce rosa, avanzata dal cartellone pubblicitario sopra il quale passava un arco di tangenziale che piegava la notte, e la città, verso la campagna aperta, dentro l’ultima nebbia. Mi chiedevo spesso da dove arrivassero quei piccoli animali dalla scorza dura. Nel vecchio deposito non c’era da mangiare, i bagni erano stati sigillati e l’acqua non correva nelle tubature ossidate ma filtrava dal tetto, come un avanzo di tempo, un nettare cieco che non guardava la vita ma fissava soltanto me, e Pietro che mi dormiva accanto. Durante l’ultimo inverno avrei voluto occuparmi dell’abito bianco, dei fiori da sistemare intorno ai marmi nella chiesa del quartiere; lui avrebbe voluto sposarsi in riva al mare. Di notte – quando nevicava – mi stringeva in mezzo ai guanti di lana e mi soffiava tra i capelli, il suo alito di vino fermo urtava sui miei peli come una benedizione: “Prima o poi riavremo la nostra casa!” sussurrava, e io lo toccavo con le scarpe grasse, e insieme affondavamo nella porzione di materasso bucato dove al mattino i bozzoli di lana dura si compattavano trattenendo i nostri sogni perduti.
Con la luce del giorno i rumori aumentavano, gli escavatori dei cantieri vicini lavoravano per la vita vera, lo sfiato dei camion lungo la discesa della tangenziale attendeva i bisogni di clienti lontani, le sirene della ambulanze ci univano a quelle scorte di dolore trascinate da un punto all’altro della città, l’abbaiare dei cani randagi ci rendeva felici: dormivano nell’angolo più umido del magazzino abbandonato e non si allontanavano al pomeriggio, quando uscivamo per andare ad accudire gli altri randagi. Io e Pietro avevamo allestito un canile all’aperto, in un piccolo campo nei pressi dell’ospedale, gabbie di reti e legno e cartoni dentro i quali poggiavamo il cibo recuperato dalle pattumiere. Ripeto spesso, a mente, tutti i nomi che gli abbiamo affidato, e i nomi delle strade e dei luoghi dove io e Pietro li abbiamo incontrati: Sirio era legato a una panchina del parco, indossava una corda come gioiello, occhi lucidi e zampe piegate sotto al muso – l’abbacinante fiducia di chi non ha bisogno di certezze per amare; Orione era fermo in una pozza di fango, aveva una zampa spezzata e guardava i passanti carichi di buste e gli amanti tenuti per mano dalla fretta, fuori dalla cattedrale; nel suo piattino di latte acido era piovuto e le formiche annegate galleggiavano formando un piccolo schema elettrico. Orsa invece era distesa in un sacco di iuta e abbaiava forte, non si vedeva e Pietro girava intorno al parcheggio di cemento trascinando il viso e i capelli tra le ruote delle auto; erano i primi giorni senza casa e io ancora badavo al carrello del supermercato, pieno di documenti e di maglioni invernali, le scarpe erano ancora buone e potevo restare in piedi molte ore.
Al nostro canile si arrivava camminando fra le sterpaglie, dietro i capannoni del supermercato. Avevamo portato lì anche i nostri dalmata, Leo e Lu, a loro piaceva giocare con i randagi e a volte si accoppiavano in mezzo all’erba e Pietro rideva per farmi innamorare; e io mi innamoravo per davvero, di quelle mani grandi sporche di terra e di passione, dei suoi stivali lucidi che splendevano sotto il cielo estivo, di quei denti bianchi scippati alle nuvole: era così che immaginavamo la nostra famiglia, un nodo di dolcezza che scodinzolava nelle buche dei terreni aridi, io che scattavo foto a quelle zampe forti di cui ci avremmo preso cura e Pietro che si avvicinava con le braccia larghe e piene di invisibile gioia, per riportarmi a casa, per riscaldarmi i piedi sul divano.
La notte degli scarafaggi era gelida e dentro al buio il magazzino sembrava esser diventato piccolo; i portelloni zincati vibravano per le raffiche di vento e i cani distesi dentro i frigoriferi si leccavano le zampe. Pietro tremava fra le masse allentate del cappotto, le gengive gonfie pulsavano sotto le labbra ma non le vedevo: sentivo una specie di rumore di bolle, uno spacco di aria infetta quando respirava così mi giravo per sistemargli la sciarpa sotto al mento. Sul mobile laccato che avevamo rubato nel nostro bagno di casa, i grani del rosario sprigionavano un’ombra fluorescente: ancora Dio che vegliava sui nostri sogni, ancora il ricordo della luce del giorno sopra i tetti dei palazzi, ancora la voglia di non riposare invano. Quando Pietro al mattino se ne andava al canile, io me ne restavo qualche ora sul materasso, rimettevo in ordine tutti i nugoli di lana indurita e mi stringevo il rosario sul viso. Non avevo cose da fare.
Quando mi svegliai, gli scarafaggi erano andati via e anche Pietro, i bidoni con l’acqua potabile erano vuoti e così spalmai del dentifricio sullo spazzolino e mi lavai piano i denti. Fuori, le luci rosa del tabellone pubblicitario erano spente e le auto che passavano veloci dalla tangenziale sollevavano gli angoli scollati dei manifesti. Pietro diceva sempre che sul tabellone non c’era posto per tutti, che prima o poi bisognava tirare via la carta consumata e fare spazio, pulire la lamiera così che la colla potesse attecchire.
Dopo aver lavato i denti sistemai le coperte, presi delle fette di pane bianco dalla busta e la richiusi con un doppio nodo. I cani erano usciti dai frigoriferi e correvano in mezzo ai cocci di bottiglia e i pacchetti vuoti di sigarette. Camminai seguendo la linea tonda del guardrail, fino al parcheggio del supermercato. Le nonne con le buste piene mi lasciarono qualche moneta che utilizzai per telefonare a casa. Sul plexiglass della cabina c’erano un sacco di nomi scritti con i pennarelli, nomi di ragazze, e io componevo il numero dei miei genitori e poi immaginavo la vita di quelle donne; immaginavo i loro abiti corti, i tacchi a spillo che battevano sul parquet, di notte, e le altre scarpe compresse negli scaffali adagiati sotto i tetti spioventi delle mansarde. Dopo il quarto squillo, una voce venne a rispondere. Guardavo le finestre azzurrate dell’ospedale. Ero stata anche io una ragazza felice, ma non lo ricordavo più.
«Pronto?» non era la voce di mia madre.
«La signora è in casa?».
«Sta riposando, chi la cerca?».
«Una collega!».
«Quale collega?».
«Un’amica… volevo dire un’amica!».
«I nostri amici non telefonano».
La voce di un uomo spento e in là con gli anni si bloccò di colpo, la linea cadde e mi ritrovai di nuovo sola, con le auto che avevano riempito per intero il parcheggio del supermercato, con i cassonetti colmi di cartoni.
Camminando lungo il viale pieno di negozi passai fuori da una pescheria; non ricordavo più l’odore dei calamari, c’era un giovane con delle scarpe bianche e un grembiule di gomma che rideva e mostrava i suoi calamari a una donna con una mantella di lana fina; non so cosa potesse divertirli ma forse ero io che non trovavo più divertente il cibo, non era nemmeno più divertente parlare e i canini anneriti mi costringevano spesso a tenere la bocca chiusa, a rimandare le mie motivazioni. Dietro la porta di un ristorante un uomo dalla pelle scura stava dritto sulle gambe, con una divisa perfettamente stirata accoglieva i clienti e porgeva loro i menù ancora prima di sedersi; i tavoli erano tutti occupati e quando la porta si apriva io sentivo le risate dei clienti e i bicchieri battere. Restai qualche minuto a osservare quell’uomo dalla pelle scura e l’abito stirato e pensavo che forse Pietro avrebbe amato quel vestito, forse gli avrebbe fatto piacere indossarlo; anche lui aveva lavorato come cameriere da giovane e a casa – per anni – avevamo conservato i sugheri delle bottiglie di vino, dentro una ampolla di vetro verde. Andavamo al granaio a comprare i sacchi di farina e l’olio di buona qualità e ci donava calore la cantina piena; quando tornavamo a casa, io non mi fermavo fino a quando non sistemavo la spesa e le provviste e Pietro allora – dopo aver tolto le scarpe da lavoro e lavato le mani – apriva una bottiglia di vino buono e andava a mettere il tappo di sughero nell’ampolla. Lo aveva visto fare al ristorante, il proprietario gli ripeteva sempre che per mettere su famiglia e crescere dei figli sani bisognava avere una casa grande e non stancarsi delle abitudini.
Alla fermata dell’autobus c’erano delle ragazze coi capelli puliti, la brina fredda e scintillante sembrava sfiorare le loro spalle senza attecchire. Due ascoltavano musica dalle cuffie e a turno infilavano le dita della mano nei buchi delle calze a rete; i loro sorrisi acuti erano diversi da quelli dei maschi, non avevano tempo, non celavano nulla, erano – le loro bocche – pezzi di corno suonati dalle tempeste, becchi angolari di uccelli non abituati a volare; rallentai il passo per ammirarle ancora, figlie che mi sarei stretta al petto se solo avessi potuto, se solo avessi indossato dei vestiti puliti.
Quando arrivai al canile c’era silenzio. Era già capitato che Pietro si allontanasse portando con sé i cani. Sistemai il cibo dentro le vaschette e mangiai alcune fette di pane bianco che avevo condito con burro e salame. Le nuvole di cenere scura si erano dilatate nel pomeriggio e il cielo pareva cicatrizzato da un grumo di ricordi avariati. Di solito, Pietro tornava dalla sua camminata dopo qualche ora ma quella sera non fu così. Si fece buio e io restai sola, seduta in mezzo alle gabbie dei cani, con le scarpe e i pantaloni della tuta affondati dentro l’erba umida. Le finestre dell’ospedale, al di là dello steccato, erano più azzurre e nel buio della sera diventavano tristi. Pensavo a Leo, e a Lu, e a Pietro perso chissà dove con i nostri cani quando una voce inspessita venne fuori dalle ombre.
«È andato via!».
«Chi sei? Di cosa parli?».
«Tutti dovremmo avere una possibilità!».
«Hai visto Pietro? È andato via, il mio Pietro? Voglio sapere chi sei!».
Non ricordo cosa sognai quella notte, incubata nel freddo della campagna sentivo le mani di Pietro sul viso e tra i capelli, la sua lingua piena di bolle battere sul collo e un branco di cani muoversi intorno al mio corpo gelato, zampe che affondavano sopra il mio petto, pioggia sottile di peli che arrancavano nell’aria buia prima di cadere tra le narici. Ricordo un colpo sordo, tra il naso e lo zigomo, un pugno che mi ricordava il sapore secco del non-amore; tirava un freddo di morte e quando aprivo gli occhi, fra le gabbie e le ciotole che puzzavano di carne, mi accorgevo di aver sognato tutto, di non avere più carezze intorno, di non avere Pietro e miei cani ad annusarmi il viso.
All’alba il cielo era un involucro di luce perlata e chiodi di stelle ghiacciate a cui appendevo il mio tormento. Leo era tornato, da solo, e girava intorno al canile con il muso infossato dentro l’erba, come se andasse alla ricerca di un altro animale, di un odore perduto e rassicurante, di una storia da raccontarmi non appena avessi tirato in su la schiena. Fissavo Leo tra i fili d’erba e il profilo addormentato della città, lo seguivo al di sotto della coda bucando il suo ventre coi pensieri; guardavo le merde secche lasciate dai nostri cani, i capannoni affollati dalle persone vere e le ciminiere fumanti, i reticoli che non avevano più cani da proteggere e poi pensavo al calore di Pietro, al suo cappotto di notte, alle mille promesse ubriache vomitate sopra la curva debole del mio orecchio. Gli occhi mi bruciavano, e bruciava l’aria e lo stomaco era incollato in un dolore rassicurante, di fame e di abbandono, di fragilità che mai avevo sentito allargarsi nelle viscere come quella notte, la notte rosa degli scarafaggi, in cui Pietro non fece ritorno. Leo continuava ad annusare la campagna e le ciotole, senza mangiare, piangeva e puntava i suoi occhi di carbone verso di me, verso il mio corpo che non era più di donna; non sentivo il mio seno, non c’era calore nel mio inguine, la pelle sulle mani era grigia e si rompeva come carta sottile.
Distesa al centro del canile guardavo le finestre spente dell’ospedale, e i palazzi costruiti da poco che lentamente tornavano a esistere; i muscoli si tiravano per via del freddo e il sangue non bastava, cedeva il suo spazio ai cristalli di aria solidificata dal ghiaccio e alleggerita da quella mancanza di ossigeno immaginavo il mio Pietro allentare le scarpe davanti alla porta di casa, piegare docile il suo giaccone caldo e salire l’ultima rampa di scale, proprio in quei palazzi; pensavo al mio corpo umile e accogliente fermo sul divano dai cuscini grandi, lui che girava piano la chiave nella toppa e io che ritrovavo l’alba e la vista del giorno nuovo fissando prima le coperte pulite, poi il tetto con il lampadario di cristallo colorato e infine lui, con i piedi stanchi e umani e un sorriso bianco aperto nella penombra e che sapeva di zucchero.
Il cielo seguitava a schiarirsi e Leo si era fermato ad annusarmi gli scarponi. I suoi occhi riflettevano una parte di nuvole chiare e alcune stelle gli accendevano lo sguardo che non era felice; la sua coda era molle e pendeva sul terreno e io iniziavo ad avvertire sempre più forte il profumo della gramigna, l’esalazione lenta e quieta del terriccio, il riverbero di calce delle pietre scheggiate – sul manto gassoso del cielo scie di luce dorata aggettavano dalla calotta e sembravano precipitare sul canile, su di me, sullo scheletro mansueto e secco di Leo che non si muoveva, che non chiudeva gli occhi, che non smetteva di piangermi. La mia voce era uno spettro di respiro che cedeva al lamento; il cuore si infossava nelle costole e batteva solo in levare, suoni e accordi dissonanti e trascrizioni rupestri di armonia soffiavano dai ventricoli occlusi; le mie ossa cantavano il tremore dell’abbandono, la vista era un immenso, spaesante, cieco orizzonte buio in cui gravitavano elettriche tutte le stelle e i miei amori animali.
Le gabbie del canile erano state rimosse, anche le ciotole e i bidoni per l’acqua e i pali di legno che reggevano il filo spinato. Seduta sul letto dell’ospedale, guardavo fuori dalla finestra e non riuscivo a stare con la schiena dritta, le mani erano bollenti e così ogni tanto soffiavo sulle dita ma non sentivo niente; le ossa sulle caviglie sporgevano viola e le croste sotto le ginocchia erano aperte e bruciavano se provavo a muovere le gambe. Dalla strada passavano i camion diretti verso i capannoni industriali e le auto delle persone che ancora abitavano il mondo; quando pioveva, la luce dei lampioni si accoccolava tra me e il buio deviando le gocce di pioggia e l’intera vita, e così i ricordi e tutte le notti passate con Pietro precipitavano lungo una linea obliqua che giungeva dritta nell’oscurità dei nostri giorni felici. Trascinai il corpo fino alla porta, c’era una donna – lì nel reparto – che era venuta a farmi visita la sera prima, a ora di cena, e che sapeva molte cose riguardo ai cani e possedeva una casa grande, con un giardino e una piccola serra di fiori, e che aveva promesso di invitarmi a pranzo un giorno; la sua casa aveva molte stanze e i suoi figli le portavano un sacco di frutta e di disegni, lì in ospedale, mi aveva anche detto che prima o poi avrebbe adottato un cane o forse due. Rimasi sulla porta per qualche minuto. In corridoio si sentiva odore di pollo e di candeggina e i parenti degli ammalati si evitavano senza sorridere; alcuni sedevano sulle lettighe vuote, una donna anziana – schiarita da una vestaglia rosa – era ferma in un angolo, aggrappata al suo carrello di ferro, apriva la bocca per far passare l’aria e io pensavo che la sua vita stava per finire, e un po’ anche la mia, che tutti abbiamo una vita e non c’è niente di cui preoccuparsi, che si può morire in molti modi.
La signora con la casa grande non venne a trovarmi e così restai seduta tutta la sera, sopra il letto, a guardare il cielo nero che ghiacciava i vapori lunari e le stelle. Le mie preoccupazioni erano solo per Pietro, per il suo viaggio, per la sua nuova vita a cui non appartenevo. Non eravamo stati mai lontani, nemmeno da piccoli. Durante i primi anni di convivenza avevamo spesso pensato di andare via, in America; a volte lui diceva che era meglio il Brasile, che alcuni suoi amici d’infanzia erano scappati in Sud America e avevano fatto fortuna; quando immaginava il nostro viaggio lungo le coste di quei luoghi esotici iniziava a camminare nel salone, metteva su alcuni pezzi di musica latina e apriva il balcone, passando dalla credenza prendeva un sigaro dal vassoio in vetro di Murano e mi invitava a ballare. Quelle serate finivano sempre con una bottiglia di vino vuota, le calze e i suoi slip arroccati in un angolo della cucina, i piatti sporchi che avrei lavato il mattino seguente e le sue carezze sulla mia schiena dolente a tarda notte, con la lampada accesa, e le nostre ombre innamorate disperse sopra i muri della camera, lente come i sogni di chi non ha paura.
Quando mi svegliai, le luci della città erano spente e non c’era alcun rumore al di là dei vetri; non si vedeva più la campagna né il canile e i capannoni industriali. Il mondo era una bolla nera di cielo in cui brillavano le stelle. La camera era cinta da un alone pallido che spumava da una luce d’emergenza. Raccolsi le pantofole sotto il letto, una trama di polvere si sollevò dal pavimento e si disperse nell’aria. Entrai in bagno per lavarmi il viso e il collo, l’acqua era fredda e quando la passavo intorno alle croste le ginocchia avevano come un sussulto e friggevano. Nello specchio sopra al lavabo, la mia faccia era una massa gonfia e livida che pulsava di infezione e che non aveva più nulla di me: non era più femmina. In corridoio non passava nessuno e io credevo fosse arrivato il momento di andare, di lasciare quel luogo caldo e non mio, di ritornare a camminare per il mondo, come Leo, e magari diventare un cane obbediente, di abbaiare alla luna, di arrangiarmi nella città senza Pietro e senza luci.