Luciano Bianciardi e il “bracciantato intellettuale”
Spesso non ricordiamo più i nostri scrittori migliori. Forse è un po’ dimenticato un autore che pure ha avuto una centralità nel dibattito culturale e letterario italiano; eppure, ormai alcuni anni fa, la casa editrice Isbn gli ha dedicato due volumi di Opere complete (2005 e 2008) polemicamente intitolati L’Antimeridiano. È Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971), che nella sua breve, folgorante e folgorata vita ci ha lasciato opere che stanno tra il romanzo, il pamphlet e l’analisi sociologica non priva di spirito caustico. I suoi libri si muovono tra la città di provincia natale, Grosseto, e la metropoli, Milano. La trilogia autobiografica è costituita dai romanzi Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962)1, il più pirotecnico e composito dei tre, il suo vero capolavoro. Ma qui voglio soffermarmi solo su alcuni passi del primo, Il lavoro culturale, titolo con il quale Bianciardi si riferisce all’attività che un gruppo di intellettuali svolge a Grosseto tra l’immediato dopoguerra e gli anni Cinquanta: siamo in un periodo nel quale ancora si pensa, gramscianamente, che la cultura possa essere leva per un cambiamento politico. Ci si muove qui tra libri, biblioteche (Bianciardi fu bibliotecario) e insegnanti ritraendo una situazione che per diversi aspetti non sembra molto mutata: problemi endemici di una società che appare immobile pur nei frenetici cambiamenti che ne fanno una “società liquida” (ciò detto oggi, con il senno di poi).
Nel quinto capitolo, dopo un inizio dedicato alla “manifattura” del libro che, seppure molto in breve, richiama alla mente il Balzac delle Illusioni perdute, si legge (e sembrerebbe scritto oggi): “In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono. Ogni anno in Italia diecimila persone danno alle stampe le loro opere, e se si tiene presente che un solo libro viene stampato, su cento che arrivano manoscritti sul tavolo di un editore, ne risulterà che abbiamo in Italia un numero altissimo di scrittori, fra editi e inediti: circa un milione, o anche di più”. Con lo spirito caustico che si diceva, continua immediatamente così: “Forse il numero degli scrittori è pari a quello degli analfabeti, e fors’anche il problema dell’analfabetismo si potrebbe risolvere imponendo a ciascun autore di insegnare a leggere a un analfabeta, servendosi del suo libro inedito come di un sillabario” (pp. 67-68)2. Alla crisi del libro, Simonetta, un salernitano giunto dalla sua città a Grosseto, vuole rispondere rilanciando la biblioteca comunale, fondata da un prete garibaldino, illuminista e guerrazziano, e attrarre “un pubblico il più possibile vasto di intellettuali cittadini, avvocati, professionisti, medici, insegnanti” (p. 68), a sua volta una borghesia colta e illuminata. All’inaugurazione della nuova impresa interviene un intellettuale da Roma che afferma che una biblioteca moderna deve andare a procacciarsi i suoi lettori, nei suoi locali bisogna organizzare letture, conferenze, dibattiti e diffondere il libro popolare. È l’attivismo, che arriverà almeno fino agli anni Settanta, di una società che vuole pro-gettarsi, cioè gettarsi-avanti. Ciò che si propone lo stesso Bianciardi, anche se qui racconta il tutto con un tono tra distaccato e ironico-autoironico. Infatti, viene notato subito come, benché invitati, nessuno dei presenti osi intervenire: “Gli altri intellettuali, avvocati, professionisti, insegnanti, stavano zitti anche loro, un po’ perché si vergognavano a prendere la parola, un po’ perché non erano abituati alle riunioni, e oltre tutto non sapevano nemmeno bene che cosa dire” (p. 68). Invitato poi a entrare nel comitato che doveva essere costituito, un professore si tira indietro, “non poteva esporsi troppo, per via del preside” (p. 69).
Ed ecco la questione che riguarda gli insegnanti. Sciolta la riunione gli organizzatori restano a parlare proprio con loro, che si lamentano dello stipendio scarso, di programmi pesanti, di alunni che non hanno voglia di far niente: come oggi? Secondo Simonetta, “si era sentita l’esigenza di andare incontro agli insegnanti; il problema dell’alleanza con i ceti medi poteva porsi cominciando ad aprire, concretamente, tutta una serie di rapporti con gli insegnanti, a farli prendere posizione su certi punti, facendo nostri i loro problemi” (p. 71). Ebbene (così prosegue il capitolo) molti insegnanti sono “avventizi” (diremmo ora “precari”): al tempo, ben il settanta per cento, una situazione che accomuna Grosseto e il resto d’Italia. Non hanno un posto stabile guadagnato con il superamento di un concorso, ma aspettano di essere nominati anno per anno dopo la presentazione di titoli per l’inserimento in graduatoria: tra i titoli, allora, accanto al diploma di laurea e il certificato di servizio prestato fino a quel momento, ci sono pure i “meriti combattentistici”. Allora, come oggi, si pone il problema di quale incarico accettare, rischiando di perderne uno migliore. “Era ogni anno la stessa storia. Uomini di quarant’anni, con moglie e figli grandi, non erano ancora entrati in ruolo, anche perché il ministero bandiva i concorsi a ogni morte di papa, ed offriva settecento posti a ventimila candidati. Gli altri diciannovemila e passa dovevano continuare a cercarsi il lavoro stagione per stagione. / ‘Una sorta di bracciantato intellettuale,’ disse solennemente un professore venuto apposta da Roma, un uomo piccolo con gli occhiali e la testa pelata. ‘Oggi l’insegnante in nulla, se non nella diversa prestazione d’opera, differisce dal bracciante che il latifondista ingaggia per le faccende stagionali’.” (pp. 72-73).
E qui volevo arrivare, al bracciantato intellettuale. Il riferimento è al lavoro agricolo. Ma viene in mente quello che Marx dice degli operai nel lavoro capitalistico: liberi soltanto di vendersi periodicamente.
Il capitolo prosegue con la dichiarazione della necessità di unire tutti gli insegnanti, ma anche alunni e genitori, in un fronte unico. Viene affrontata anche la questione femminile, quando a una professoressa viene rimproverato che le donne tolgono il posto agli uomini. Pronta la professoressa: «Allora che ce l’hanno data a fare la laurea? Siamo state a scuola anche noi, o no?». E il professore dalla testa pelata conclude dicendo «che uomini e donne hanno gli stessi diritti, e che non devono mettersi gli uni contro gli altri, ma portare avanti una lotta comune, con gli stessi obbiettivi». E il narratore nota con disincanto nonostante la passione politica: “Ma nessuno lo stava a sentire…” (p. 75).
In una manciata di pagine Bianciardi, con uno stile piano e diretto ma non meno letterario nella sua asciuttezza (ben diverso da quello de La vita agra), butta sul tavolo, o meglio, sulla pagina una serie di questioni parlando ancora a noi postumi e posteriori. Scrivendo da un’Italia nella quale possiamo ancora rispecchiarci, con la differenza che molte di quelle spinte innovatrici sembrano essersi arenate. Certo, si continuano a fare letture e incontri in biblioteca, o in libreria. Ma quanti nella prospettiva di cambiare qualcosa?
1 Tutti disponibili presso Feltrinelli. Esiste anche un volume, sempre per lo stesso editore, che riunisce i tre romanzi.
2 Cito dalla quarta edizione de Il lavoro culturale nell’Universale Economica Feltrinelli del 2013.