Motherhood

Scrivo questo piccolo contributo per “Kairos” nella sera della quarta domenica di Avvento. Per chi fosse poco avvezzo alla liturgia cattolica, il tempo di Avvento è il tempo dell’attesa del Signore che viene, quindi della incarnazione di Dio nel Cristo (quel Dio che, nel prologo del Vangelo secondo Giovanni, è il Verbo e, in greco, il “Logos”). Esso dura fino a Natale e contiene quattro domeniche, l’ultima è caduta il 19 dicembre 2021.
Ho ascoltato l’omelia di questa quarta domenica in un luogo per me molto importante. Non solo per me, a dire il vero: il monte della Verna, in provincia di Arezzo, dove Francesco d’Assisi ebbe le stimmate e dove oggi esiste un santuario francescano che ospita chi vuole soggiornarvi. La messa era celebrata da un giovane e simpatico frate argentino dalla folta capigliatura nera. A un certo punto della sua breve omelia ha detto: siamo tutte madri, dobbiamo tutti generare l’uomo nuovo. Insomma, in questa rinascita noi siamo madri di noi stessi. È una rinascita interiore, certo. Non carnale ma, se volete, spirituale. Ed io penso da tempo che questo sia vero, questa chiamata alla rinascita, e che la nostra vita, e in essa soprattutto la scrittura, l’arte dello scrivere, debbano appassionatamente servire allo scopo di aiutare l’avvenimento di questa rinascita.
La scrittura è il luogo delle nostre incarnazioni veridiche, in effetti: il luogo della possibile incarnazione non del “logos” astratto (non siamo Dio, né scriviamo testi sacri in senso stretto), ma del “dia-logos” concreto, del farsi della nostra esperienza relazionale (“i personaggi”) vita vera, vita autentica proprio a partire dalla costruzione di un racconto in parole.
Un racconto straordinario di maternità è rinvenibile negli ultimi anni (2018-2021) in una serie televisiva che mi ha rapito: “Pose”. Ambientata in un decennio circa a New York nella comunità transessuale che si esibiva nei “balls” e che impose al mondo, grazie al filtro del mitico singolo di Madonna del 1990, il movimento e il ritmo Vogue. Alcune transessuali costituivano delle “houses” e vi ospitavano i loro “children”, che non erano altro che transessuali o uomini gay, solitamente molto giovani. Non solo davano casa. Non solo un pasto. Ma un orientamento. Una dose di coraggio. Una prospettiva che non fosse battere al molo. Tra queste madri ve n’è una, Elektra Abundance, col suo metro e ottantacinque di altezza, la quale è l’unica transessuale della serie che riesce a sottoporsi ad intervento chirurgico. Il personaggio, nelle tre stagioni, viene rivelato a strati e questo lo rende forse uno dei più affascinanti e fecondi
Elektra sa essere davvero molto dura, capace com’è di incenerire con parole di succulenta perfidia i “children” che la deludono o le si ribellano.
Sempre al monastero francescano, dove eravamo in quattro gatti, a un tavolo hanno preso posto a un certo punto gli appartenenti al cosiddetto nucleo familiare tradizionale, padre, madre e due tremendi figli adolescenti. Dico tremendi perché muti, ostili, fantasmatici come i protagonisti di “Giro di vite” nelle pagine finali del racconto di James. La madre, per rabbonirli – i due erano sprofondati in un silenzio meditabondo a causa della mancanza di wifi – a un tratto ha riferito tutta felice che c’era una stanza al piano di sopra del monastero, dotata di tv e anche di connessione internet, utile per studiare, ad esempio. La figlia, pallida scontrosa arrabbiata, ha blaterato che se doveva studiare se ne stava a casa. La madre ha abbozzato, mortificata.
Io allora ho pensato al possibile, squisito rosario di perfidie che avrebbe inanellato a voce stentorea “mother” Elektra Abundance a una sua “child” così maleducata e ingrata. Ho pensato ai suoi tailleur pazzeschi, li ho pensati presenti lì, nella sala dei pasti della foresteria. Sono stato certo che la diabolica “child” introversa e arrabbiata si sarebbe allora zittita e anzi avrebbe mormorato con contrizione: “I’m sorry, mother”.
Ritornando a casa a Napoli, ho riflettuto sul fatto che non solo la mia maternità è rigenerarmi, dare vita a un uomo nuovo, sempre, in un travaglio che non può conoscere sosta. La mia maternità è anche curare gli abbandonati, di ogni sorta. Che poi sono quelli che non hanno il coraggio della maternità. O, se preferite, di “rinascere dall’alto” (Giovanni, Cap. 3).
Mi mancano, di Elektra, l’altezza e la magrezza. Ma me ne farò una ragione.
Senza il suo piglio severo e una scommessa di libertà integrale che madri saremmo, gli uni per gli altri? E, d’altra parte, che libri potremmo mai generare? Che parole nuove potremmo mai partorire senza osare l’attraversamento veritiero delle nostre esperienze?
Ecco, per questa celebrazione di “Kairos”, chiuderò con tre consigli: vivete il vostro Avvento, quale che esso sia; guardate “Pose” danzando Vogue e, soprattutto, cercate la vostra maternità, sempre e ovunque. Come Elektra Abundance. E come chiunque riesca a generare vita nuova, mescolando la fiducia verso ciò che non vediamo e il dolore della prova per tutto quel che di ingiusto e violento vediamo.