conrad

Nel Cuore di tenebra

Tenebroso l’incedere di questa barca. Più si addentra e più vede svanire la fioca fiamma che presume di portare, come se l’ossigeno venisse a mancare.
Le ombre si allungano mentre il fiume si tinge di rosso: la scena è quasi immobile e non possiamo staccare gli occhi dal lungo piano sequenza, ma solo lasciarli abituare al buio che poco a poco li vince. Gli istanti, lenti, scorrono lungo l’acqua, tanto che non sembriamo esserci mai mossi dalle fumose nebbie londinesi, e invece giungiamo al centro di un continente, al centro della terra. È da quel cuore che proviene la voce roca di Marlow, come se da lì non fosse mai tornata; è il brusio di un disco che ha finito i suoi giri, ma è proprio questa voce la nostra unica certezza che il tempo continua a scorrere come sempre. Ci ignora, come sempre, ma continua nella sua tortura della goccia.
Ma adesso che Marlow sta tessendo il suo incantesimo, non possiamo che lasciarci irretire: nel regime da mille e una notte non c’è tempo che tenga. E molte saranno state le sue notti, o forse un’unica lunga notte, trascorse ad attraversare il fiume, «che appariva sulla carta come un immenso serpente con la testa nel mare, mentre il corpo in riposo formava un’ampia curva su una vasta regione e la coda si perdeva nelle profondità della terra».
Echeggiando una situazione analoga descritta in A Personal Record da Conrad, burattinaio che muove i molteplici fili della narrazione, Marlow ci racconta che da bambino, appassionato di carte geografiche, creava con la mente i luoghi che allora poteva percorrere solo col dito sulla mappa, in attesa dell’età in cui i viaggi sarebbero diventati concreti e quel là non sarebbe più stato un’area indistinta su un pezzo di carta. E il luogo che più di tutti suscita il suo desiderio, quello che davvero lo spinge a partire e a realizzare il suo «Quando sarò grande andrò là», è quello che sulle carte che consulta da bambino è il più vuoto. Un vuoto che, mormora adesso, si è riempito. Non è più il bianco sogno da riempire di fantasie di bambino, ma a tutti gli effetti un luogo che sulle carte presenta laghi, fiumi e nomi: ne parla come se esistesse solo su quei fogli, o solo in funzione del suo destino. È il suo vuoto, che si è poi riempito di tenebra.
È lì che si dirige la sua voce, lì che tendono i suoi passi, come mossi da una danza macabra, da una forza magnetica che chiama «il fascino dell’abominio». Ci stiamo muovendo con lui, sullo stesso battello; giungiamo in questa tenebra, e tutto ciò che giace nel profondo non può non riguardarci. Il suo mistero si manifesta tutto nei suoni: più che dialoghi, quelli di Marlow coi suoi interlocutori, sono mormorii, sussurri identici a quelli degli alberi mossi dal vento, delle acque attraversate. Solo un lontano ritmo di tamburo, di tanto in tanto, spezza questo sottofondo.
Ma è sempre più difficile fidarsi delle sue parole, fidarsi di lui, qui in carne ed ossa davanti a noi. Forse era davvero arrivato al cuore di quell’abominio, eppure ogni cosa è rimasta impenetrabile. La giungla; Kurtz, l’uomo che «con un calcio si era liberato della terra»; le folle di indigeni; l’orrore: è davvero accaduto tutto questo? Non riusciamo a liberarci dell’oscura diffidenza, della nebbiosità che pervade tutto il racconto di Marlow. E lui stesso confessa: «Per me è come se stessi cercando di raccontarvi un sogno – un tentativo inutile perché non c’è modo di comunicare a parole la sensazione del sogno, quel miscuglio di assurdità, sorpresa e stupore in un fremito di lotta e ribellione, la consapevolezza di essere preda dell’incredibile, che è l’essenza stessa dei sogni […] No, è impossibile; è impossibile comunicare la sensazione di vita di qualsiasi fase della propria esistenza – ciò che ne costituisce la verità, il significato – l’essenza sottile e penetrante. È impossibile. Si vive come si sogna – soli…».
Marlow da quel sogno sembra non essere mai tornato, è rimasto preda dell’incredibile. Si fa spazio l’idea che egli possa aver trovato non la tenebra, ma un opaco specchio, restando intrappolato nel suo stesso riflesso. Chi potrà dire se questa voce che ci parla nella penombra non è solo il suo spettro?