Nel mio sangue
«Una voce si ode a Rama,
un lamento e un pianto amaro:
Rachele piange i suoi figli,
e non vuole essere consolata per i suoi figli,
perché non sono più» (Ger 31,15).
Nella bocca già satura ricava altro spazio con il cucchiaio per introdurre l’ennesimo boccone bollente. Non sente oppure odia nel gesto preciso e deciso, svuotato di volontà. Senza raccogliere l’eccesso che intanto cola e ustiona i lati delle labbra, gli occhi bucano un punto fisso del muro. Pensa al frutto marcio, all’acqua verde. Il veleno che lei stessa ha distillato, intossicando, ammalando, uccidendo. Smette di perforare il muro per odiare il ventre sgonfio – si è bucato da solo. La vita nata morta, la carne strappata. Sono finite le immagini pensabili. Il pianto c’era? Che senso ha aver distinto se adesso è un tutto identico, opaco, definitivo senza forma o conservarsi come sempiterno luogo desolato. Odia il corpo che l’ha tradita espellendo l’essudato purulento figlio, salvandola. Nella mia anima e nel mio sangue è sceso il dolore, dolore, dolore.
Nell’aria si ricompongono le sembianze del Dio per il quale non si è mai impolverata le ginocchia. Nell’istante in cui si manifesta onnipotente, eterno, adonai, abbà, ha significato e potere bestemmiare il nome del sanguinario, dell’obliquo. «Hai osato stendere la tua mano contro di me facendomi montagna bruciata dalla quale non si prenderà più né pietra d’angolo, né pietra da fondamenta». «Sei tu». La voce le irrompe nel cranio, sopra di esso e in tutte le direzioni in cui si propaga e rimbalza devastando senza tregua. È sparita la terra in cui poteva dire io: sopravvive nel letto, tra le gambe divaricate, una macchia scura, quella antica, che sembra cosa viva: la risposta che Edipo sta cercando. Svelata, accumula sulla necrosi l’umana speranza che le sussurra: «Coraggio, compi». Contravvenire a ogni principio e non rinascere mai più, in nessuna altra forma. Non ha mai parlato: sperava di farlo insegnandolo. Non parlerà più.