Nella verde gola della Lupe. Luce e buio secondo Pei e Soncini
“Nel profondo della grotta è sempre notte, e fuori dal cerchio della torcia le altre sembrano fatte di ombra”. L’incipit de “Nella verde gola delle lupe” di Lucrezia Pei e Ornella Soncini (Moscabianca Edizioni) non è solo un valido espediente per introdurci all’immanenza narrativa del mistero e alla lettura di una novella molto ben scritta. È soprattutto la traduzione efficacissima, ricolma di codici, della cultura contemporanea costruita intorno al corpo mostruoso delle donne.
Se diciamo “streghe”, cosa è corretto evocare? Non Satana, non il Capro Nero. Né nei, né nasi adunchi. Ma le efferati immagini del più grande femminicidio di massa.
Così, la storia delle SonPei (Soncini+Pei) proprio perché ambientata in un ‘500 alternativo, dove figure del margine e religioni monoteiste si fondono con le tragiche origini del capitalismo stesso, è metafora fortissima della guerra di genere che viviamo ancora oggi.
Pei e Soncini, in una magica alchimia autoriale (sarebbe bello poter chiedere loro quale processo di scrittura hanno adottato per raggiungere questa piacevolissima omogeneità), richiamano saggiamente il topos del bosco, dove le Lupe/Donne sono state costrette a rintanarsi dopo la Grande Ingiustizia: cambiati dalla scoperta del prezioso rubro, gli uomini hanno preso a volere e ad esercitare un potere assoluto, esigendo anche quello invidiatissimo della riproduzione, appannaggio esclusivo delle donne.
E dipingono, grazie anche all’ausilio delle meravigliose tavole di Marco Calvi, una grotta, dove è sempre notte: l’oscurità in cui siamo state ricacciate è in qualche modo il ventre dove si compie il miracolo della vita o dove prorompe il mistero impenetrabile e terrificante delle profondità femminili. In quell’abisso contenitivo, si nascondono tutti i corpi ritenuti pericolosi per l’Ordine Sociale. E questi corpi sono, nel racconto sonpeiano, specialmente quelli delle donne da controllare, di cui godere, da mettere in mostra per il piacere altrui.
Il bosco, la grotta. I luoghi malefici lontani dalle città, dai centri cioè dove vigono con forza le scale sociali e la rigida divisione del lavoro che relega alla sfera femminile quello di cura come forma di schiavitù, sanciscono la differenza tra un dentro e un fuori, tra la luce e il buio. Eccola qui l’ombra dell’incipit dove chi è fuori dal cerchio della torcia, dalla luce della moralità comunemente accettata, diventa invisibile. O un mostro da allontanare.
Le Sonpei sono bravissime nel raccontare la storia di tutte le donne attraverso la storia di alcune donne. E, soprattutto, sono molto abili nell’affidare al medium della letteratura (che è sempre un ragionamento d’arte tra il nostro dentro e il nostro fuori, tra il nostro buio e la nostra luce) quella dialettica degli opposti che genera il margine così meravigliosamente sviscerato da bell hooks.
Ana, Lia, Speranza, Esaltazia e tutte le altre Lupe, vivendo nella separazione dalla sfera maschile soverchiante e violenta, non possono che essere emarginate. Ma è lì, proprio lì, nel buio del bosco e della grotta che prendono parola e riparano le identità in pezzi di tutte noi. Assimilabili alle streghe per il loro sapere medico, per i rituali matriarcali, per la loro forte indipendenza e per il potere incomprensibile agli sciocchi che emanano loro malgrado, le Lupe ci risarciscono di uno dei più grandi furti che abbiamo mai subito: quello della Voce. Non solo della voce letteraria (tema controverso, quello della presenza delle donne in letteratura, solo per chi non sa leggere la storia nel profondo), ma la voce reale, fisica, quella di gola e quella di pancia, di chi come noi è sempre stata ridotta al silenzio.
Le Lupe ci dicono che l’umanità ha diritto ad una divinità femminile quando l’uomo (maschile, singolare) costruisce l’idea di dio a propria immagine e somiglianza. Ci dicono che la maternità è un valore solo se condiviso tra tutte le figure di cura (“Generate parentele, non figli”, ammoniva Haraway) e ci dicono che la natura, al pari delle donne, non può essere solo una cavità da cui estrarre l’antico rubro, il moderno petrolio, i figli, il piacere.
Non posso e non voglio svelare nulla della linea di trama, né delle conclusioni concettuali. Il desiderio va solo smosso come sabbia a svelare la risacca.
Però c’è una cosa ancora, una soltanto. Ed è sui mostri, che amo come segno letterario di ciò che non è consentito e in relazione ai quali definiamo ciò che siamo costretti a essere. Bruno Bettelheim (Il mondo incantato, 1975) ci mette in guardia dall’espungere la figura del mostro da ogni genere di narrazione, specie dalle fiabe. Perché il mostro che conosciamo meglio e che ci preoccupa di più è quello che sentiamo o temiamo di essere ed è lo stesso che, a volte, arriva a perseguitarci. Il mostro scappa sempre, dice J.J. Cohen (Monster theory: reading culture, 1996), ma sempre ritorna ad emergere dal nostro inconscio e dal margine sociale.
È per questo che Pei e Soncini ci invitano, tutti e tutte, a identificarci con le Lupe. Sono la libertà che facciamo fatica a conquistare nel regno del binarismo e del patriarcato, quella libertà che abbiamo paura di praticare pena l’esclusione sociale. Vale principalmente per le donne, certo, ma anche gli uomini sono saldamente rinchiusi nella gabbia del genere.
Perfino la ricerca linguistica che pervade l’intera opera, così attenta ai vocaboli già attestati nel ‘500, ci parla di liberazione. Perché precedente, parafrasando Donna Haraway, alla penetrazione del linguaggio compiuta dall’uomo per garantirsi l’assoluta autoreferenzialità.
A me, quindi, piacciono il bosco, la grotta, il manto delle Lupe. Il buio. Al sole del senso comune rischio solo di bruciare.
È così, grazie all’oscurità di cui le protagoniste di questa novella sono signore assolute, io ho potuto riappropriarmi della mia.
Accadrà anche a voi leggendo “Nella verde gola delle lupe” delle bravissime Lucrezia Pei e Ornella Soncini. Io ne sono sicura.