Not in my town
Lezzago è piccola, abbastanza da farti sognare di andartene, ma è anche grande, abbastanza da sconvolgere papà quando scopre che giri un cortometraggio per fare domanda a una scuola di cinema romana. Accendo la mia videocam scadente mentre Giuditta mi sta davanti. Indossa questo cappello nero alla Coven e degli occhiali da sole da vera ape regina. Le dico di piroettare.
A Roma? Ma se hai Milano qua dietro, vai a Treviglio in bus e da lì, treno!
«Okay», esclamo, «ora cammina a testa alta».
Giuditta obbedisce, un po’ come a teatro.
Lezzago è piccola, abbastanza perché tutti si conoscano tra loro, ma è anche grande, abbastanza perché la maggior parte si limiti a sapere chi sono gli altri senza averci mai parlato.
Alle medie, Giuditta Moschella era la it-girl – ancora non ci parlavamo. Eravamo nell’era Grimes e lei fu la prima della scuola a ottenere il consenso dei genitori per tingersi i capelli. Ciò la rese celebre per ogni angolo dell’istituto: la vedevi entrare dal cancello con lo skateboard, le cinghie, i capelli rosa e tutti nel cortile si spostavano per farla passare. Un tipo ventenne con cui si frequentava a quindici anni le ha fatto delle foto che sono andate virali su Tumblr.
Nella mandria dei conosciuti ci sono finito anch’io anni dopo, in prima superiore per l’esattezza. Le voci su di me si alternavano tra i bro della stazione – Enea Cruncotti. Il figlio del macellaio, sì, ora gli piace il cazzo – e i neo-liberali che mi volevano come amico per dimostrare una certa apertura di mente, un camuffamento dell’«ho sempre voluto un amico gay!». Una versione superiore che, non lo nascondo, mi lusingava. Sono così arrivate le prime feste, i primi drink. Il mio incontro con Giuditta.
Stavamo entrambi fumando Camel ai frutti di bosco fuori dal locale. Mi si avvicinò senza presentarsi, non ne vedeva il motivo— sapeva che sapevo chi era. Mi disse che le piaceva il mio feed di Instagram, che era molto Tumblr. Poco dopo ci ritrovammo a fare teatro insieme. Da lì in poi è stata la mia musa. Fu la prima volta che iniziai a volere bene a una persona che non avrei mai pensato sarebbe entrata nella mia vita.
Borsa di studio? Non basta per Roma, Enea.
Già con l’abbonamento dei treni faremo fatica.
Passiamo davanti alle scuole medie e ci fermiamo di fronte al graffito nero che occupa tutto il muro davanti all’ingresso. Per tre anni, uscivamo dal cortile e lo leggevamo. Per tre anni, lo zaino pareva diventare più pesante.
Not in my town. Una scritta nera, scialba, disillusa. A dodici anni meritavo di meglio.
Ci guardiamo, Giuditta estrae la bomboletta spray.
«Sei sicura?».
Lei ride: «È stata una tua idea».
«Non finiremo in carcere, vero?».
«Tu premi record. Se tutto va bene, finirai a Roma».
La videocamera mi trema tra le mani mentre registro. Giuditta fa una Y con la coda, pare un gamberetto. Continuo a riprendere, mi guardo attorno sperando non ci veda nessuno.
Finisce, mi si avvicina, vuole vedere il video. Mentre le passo la telecamera, non riesco a non guardare il graffito modificato. Not in my town yet.
Vabbè, fa’ come ti pare. Le idee e basta non portano da nessuna parte.
Raggiungiamo la stazione dei bus per girare l’ultima scena: il momento in cui la protagonista se ne va dal paese di provincia, sale sulla vettura senza guardarsi indietro. La facciamo e scende di corsa prima che si chiudano le porte automatiche. Mentre aspettiamo che cadano delle foglie da un albero lì vicino – così da fare qualche altra ripresa più artistica – un tipo viene a sgridarci dicendo che abbiamo bisogno di un permesso. Gli dico che è per un progetto di scuola. Se ne va via tutto incazzato.
Offro una Coca Zero a Giuditta al cinese davanti alla stazione. Vuole chiedermelo, glielo leggo in faccia. Non lo fa, rimane a sorseggiare la sua bibita, ancora con gli occhiali addosso.
Le rispondo: «Me ne voglio andare perché qua non c’è nulla che mi faccia rimanere».
Sospira, annuisce, guarda il vuoto. Come se stessimo ancora girando il corto.
Non sei più un bambino, Enea, cresci.
«I professori non sfruttano il mio potenziale, papà non pensa a nulla se non alla macelleria. Sono qui ma non ci sono. Mi sento un addobbo».
Vuole intervenire, ma la blocco: «Ricevo amore in bagni luridi, da ragazzi con la fidanzatina, nessuno ha le palle di stringermi la mano. E ho freddo».
Allontano la mia Coca, mi si è chiuso lo stomaco: «Se non me ne vado da Lezzago finisco con la testa nel forno come Édith Piaf».
«Sylvia Plath».
«Stessa cosa».
Ascolta me che ho più esperienza. Lascia stare il cinema.
«Mi mancherai tanto, Crunco».
Spalanco gli occhi. Giuditta ne parla come se fosse certa che me ne andrò. Le rispondo «anche tu», ma balbetto. La voce ovattata di papà svanisce nelle backroom del mio cervello.
Lezzago è piccola, abbastanza perché le dinamiche dei ragazzi di provincia siano una maledizione condivisa, ma è anche grande, abbastanza perché le cose possano cambiare.
Sorrido a Giuditta. Tra poco deve fare ripetizioni a una ragazza di seconda, io devo andare a montare il corto. Io devo andare a Roma.