L’ombra delle parole

Una pallina da ping pong rimbalza su una superficie di formica verde. Vietato giocare, decreta il regolamento del condominio.
Voci di ragazzi rimbombano sulle pareti. La stanza, affacciata su un cortile interno, rimane in penombra gran parte dell’anno.
Il caffè è pronto. Senza avvicinarsi alla finestra, Benedetto urla che è ora di farla finita mentre spegne il fornello e subito dopo accende una lampada poggiata per terra.
Raccoglie un libro, occhieggia parole che non pronuncia, che non ha pronunciato da tempo, che non vorrebbe pronunciare. Ogni giorno ne sceglie una. Una sull’altra, le parole si accumulano a testimoniare la loro presenza. Inattuale. Inattualità. Sono io.
Altri libri marchiati con il cerchio di una tazzina sono stati abbandonati ai lati di una poltrona, liberi dalla passione mutevole del loro proprietario, sempre in cerca di nuovi autori.
Non si definisce un lettore devoto. Lei era il monumento del suo essere uomo. Ricorda poco di quello che legge. Qualche frase, qualche passaggio, lo sguardo ironico di un personaggio che sembra prenderlo in giro dalle pagine.
Il monumento del mio essere uomo sta tutto nella ridicola ampiezza di un retrobottega ammuffito.
L’unica passione stabile che Benedetto può vantare è il caffè, a tutte le ore. Non è una passione raffinata, piuttosto un sostegno e una risposta abituale a una necessità indefinita.
Non si cura di scegliere luoghi d’origine o miscele, la più modesta grana del più modesto supermercato lo consola quanto la purezza del gusto di una manciata di chicchi selezionati uno a uno.
I miei compagni di carta rimangono qui dentro, sono privi di necessità. Diversi da me.
Siede per la colazione. È domenica e non deve aprire la libreria. Il tavolo sotto la finestra è ingombro di carte, libri, polvere e un paio di bicchieri e piatti sporchi. Da quella posizione può vedere gli scaffali e la vetrina del negozio. Guarda l’orologio appeso al muro, scorre alcuni appunti scritti la sera precedente, li accartoccia e li getta per terra.
Adesso i ragazzi giocano a calcio e si chiamano a vicenda. Benedetto attende che sia qualcun altro a protestare. Non accade nulla. Chiude la finestra. Pulisce sommariamente il tavolo, beve un altro caffè. Nello spicchio di strada inquadrato dalla vetrina nessuno passa. Pulisce anche il bancone del negozio in modo da avvicinarsi al telefono.
«Che ore sono, caro?»
«Non lo so.»
«Non è vero.»
«Cosa cambia per te? Sei invitata a pranzo.»
«Hai fatto bene a chiamare presto così ho il tempo di riprendermi.» La voce di Maya, all’inizio roca di sonno, ha già riacquistato la sua finezza di velo.
«Passo a prenderti all’una.»
«Sappi che ti ho fatto un regalo.»
«Non lo sprecare.» Benedetto abbassa la cornetta con un sorriso.
Andranno alla Trattoria Popolare di Franz dove “si servono ancora le mezze porzioni, ci sono pochi piatti nel menù, ti puoi fermare per un bicchiere di vino, un caffè, una grappa o per sederti a pensare.” Così recita il nuovo depliant.
Una pallonata fa vibrare le grate. Meglio abbassare la tapparella.
Forse dovrebbe indossare uno dei due completi appesi nell’armadio. Uno è grigio, l’altro ha un colore indefinito, vicino al verde, con qualche filo giallastro nella trama. Uno dei due è riservato al suo funerale. Il settantesimo compleanno è il momento per prendere una decisione. Poi dovrà apporvi una targhetta indirizzata a chi preparerà il corpo. Il grigio sembra il più adatto. Il verde, per quanto spento, sa ancora di vita.
Si ravviva i capelli allo specchio. È ancora presto per uscire. Siede davanti ai resti della colazione.
All’una meno un quarto si alza ed esce dall’unica porta della sua dimora, quella del negozio. Si avvia verso la casa di Maya, poco distante. Appena suona il campanello, Maya si affaccia, gli chiede di aspettarla qualche minuto. Benedetto si sistema a fianco del portone e non guarda niente. Si stanca a osservare i luoghi che conosce da sempre. Le persone che li attraversano, per quanto diverse, paiono sempre le stesse. Cambiano le insegne dei negozi. Cambiano i fiori appesi alle finestre. Cambiano i colori dei capelli che si affacciano alle finestre. Si sostituiscono gli uni agli altri, niente cambia davvero.
Il portone si apre e appare Maya con il caschetto biondo platino a cui non rinuncerebbe mai, un abito rosso violaceo, le solite collane, gli anelli, il trucco e un affanno nuovo, sconosciuto, che lo preoccupa all’istante. Le offre il braccio. Camminano lentamente.
Franz li aspetta, pronto a fingere che non sia una festa di compleanno sebbene abbia predisposto un menu speciale con i piatti preferiti dal suo amico.
Sulla soglia, Benedetto si scosta per far passare Maya che esita appena e si lascia sorreggere.
«Quel sorriso, è proprio quello che stavo aspettando.» Al vocione di Franz, Benedetto si volta.
«Mi riferivo a Maya ovviamente.»
Li accompagna al solito tavolo, lontano dalla vetrina desiderata dalla maggior parte degli ospiti. La vista sulla strada non sarebbe granché se non fosse per una piccola fontana scolpita e incistata nel palazzo di fronte. Franz non perde occasione di fare indecenti battute sui turisti dagli occhi umidi che infilano la Sindrome di Stendhal nei fiaschi di rosso. Si è sempre rifiutato di piazzare qualche tavolino all’aperto. «La trattoria è una cosa, la città un’altra.» Benedetto direbbe «La libreria è una cosa, il mondo un’altra.»
Maya posa un pacchettino sul tavolo. Carta fiorentina, nastro di velluto. Un campanello appeso al fiocco. Sorride. Benedetto alza le sopracciglia. È l’unica da cui riesce a farsi prendere in giro. Scuote il pacchetto.
«Allora, lo apri o no? I ragazzi aspettano solo un cenno per l’antipasto.» Franz rompe l’incantesimo.
«C’entri pure tu con questo?» Benedetto rigira il pacchetto fra le dita.
«Sia mai. A ognuno il suo.» Franz accenna un inchino a Maya.
Allo sciogliersi del fiocco, il campanello tintinna appena, la carta rigida si apre da sola scoprendo una scatolina da gioielliere. Un pennino. D’oro. Con una B maiuscola incisa.
«Che perfezione inutile.» Benedetto si rigira il piccolo oggetto tra le dita.
«Alla tua età è opportuno avere un pennino decente.»
«Per l’uso che ne faccio.»
«È per le lettere d’amore, caro. Possiamo cominciare.» La voce di Maya fa partire il segnale di Franz per il pranzo. Benedetto storce le labbra, le sue mani ossute stringono già le posate.
Un piatto dopo l’altro, un bicchiere dopo l’altro, una conversazione dopo l’altra, il tempo insieme ha gli strati sottili di una sfoglia che è rimasta fragrante nonostante gli anni, finché un pensiero porta via Benedetto che resiste, si regge alla sedia, al tavolo, poi alla porta, ma che finisce a vagare per le strade, per poi addentrarsi nella libreria. All’inizio è indefinito, poi si trasforma in un’immagine. Non gli scaffali, non gli scatoloni da aprire, non la pila di libri da sistemare. Non la poltrona con la macchia di caffè del giorno prima. Non la pentolina con la pasta o il riso in brodo della sera. Non la scrivania. Non il pavimento. Non la finestra.
Poche parole galleggiano nel retrobottega, sospese, in attesa del suo ritorno, altre respirano su pagine nascoste tra altre pagine.
Incastri da liberare, le parole si isolano, nelle frasi rimangono divise. Si frammentano. Si mescolano, nuovi incastri.
Benedetto impasta la mollica avanzata. Il tempo non si è fermato, sul tavolo sono rimasti i bicchieri. Franz e Maya stanno ridendo, ridono spesso, tutti e due. Stanno ridendo di qualcosa che gli sfugge, qualcosa che non sa. Accenna un sorriso. Poi si scuote un po’, a labbra serrate, in una risata sommessa, giusto per non lasciarli del tutto da soli, per non lasciare quel luogo familiare e caldo, odoroso, pieno di persone e lingue diverse.
Franz si allontana e ritorna con la crostata di uva e una ciotola piena di crema pasticcera ancora tiepida. Benedetto riprende i suoi occhi, li conduce sulla paletta per dolci che l’amico gli sta porgendo. Maya gli stringe un polso tra le dita. Da quanto?
«Tutta per te.» dice Franz. Tutto per te è quello che sente Benedetto. Sì, lo sa. Lo sa. Quanto è prezioso questo momento. Taglia una fetta di torta dopo l’altra.
A fine pasto, Franz offre una bottiglia di grappa e bevono insieme fino al pomeriggio. Sì, una bella giornata, Benedetto potrebbe ammetterlo nonostante le eccessive premure di Maya e Franz. La loro accondiscendenza immotivata glieli rende odiosi come fratelli di sangue.
Una bella giornata è insufficiente. È perduta, invisibile. Non la posso misurare in alcun modo. Non ci sono pensieri che bastino a ricostruirla. I bei ricordi sono inutili. Come se facessi qualcosa di utile. A parte mettere ordine.
«Il cigolio dei tuoi pensieri riempie la stanza.» Franz non riesce a stare zitto per più di qualche minuto.
«In effetti li hai interrotti.»
«Menomale, è tutto il giorno che sei altrove, che ti passa per la testa?»
«Gli anni, gli anni che passano» dice Benedetto, certo di essere stato congruente con la giornata e con l’atmosfera.
Maya alza gli occhi al soffitto e poi si ammorbidisce in un sorriso malizioso. La risata di Franz lo sottolinea.
Benedetto non penserebbe al passare del tempo proprio quel giorno, tantomeno in quel momento. È una sciocchezza improvvisata, una risposta che non potrebbe essere scritta, che è il suo metro di paragone per qualsiasi frase. Quello che non può essere scritto, non può essere detto. Una regola che semplifica la vita.
Alle sette, quando iniziano ad arrivare i clienti per la cena, della crostata sono rimaste le briciole e l’ultimo bicchierino di grappa ha fiaccato i due uomini, Maya invece è brillante come al solito. Benedetto la accompagna a casa. Non riesce a tenere un’andatura regolare.
«Dovremmo passare ai succhi di frutta, stai invecchiando.»
La guarda e sorride. Dietro di lei intravede un’ombra, una macchia di colore, sfuggente. L’ha già vista in precedenza, una nuvola rosa.
Saluta bruscamente Maya davanti al portone e ritrova un’andatura veloce e ritmata. Si volta a cercare l’ombra, non la vede più.
La vergogna non è rivelare o non rivelare un segreto. La vergogna è il segreto.
Se hai un segreto, hai una vita da perdente. Sei pronto a lasciarti avvelenare da una sconfitta. Un segreto è l’acqua di un fiume melmoso. Lento e mefitico come una colata lavica.
La sua bella di notte, la libreria, sboccia quando il sole si smorza. Non ha mai rivelato a nessuno la natura del suo lavoro notturno.
Ricorda il momento esatto in cui ha iniziato, la riga, la parola che lo ha indotto ad agire, che gli ha provocato disgusto, la ricorda: monumento. Lei era il monumento del suo essere uomo.
Un rigurgito acido in gola gli aveva segnalato la necessità di intervenire. Il rigurgito si ripresenta periodicamente a segnalare il momento giusto per cambiare, il momento di agire.
Rigira quella frase per accorgersi ogni volta che è solo un minuscolo carillon con una musica sgangherata.

Il caffè della mattina non può niente contro la grappa del giorno prima e soprattutto irrita ancora di più lo stomaco. La pioggia aumenta il numero delle sue zone dolenti. Certe giornate non si ferma nessuno davanti alla vetrina. Ha tempo per portare avanti il lavoro abbandonato la sera precedente. Solo una piccola conclusione, un filo da riagganciare a un discorso che altrimenti potrebbe perdersi durante la giornata. Di solito il lavoro notturno non contamina quello diurno.
Pormi questioni inutili come quella della scrittura mi fa apparire – ecco un’altra espressione inutile – apparire. Mi fa apparire. Punto. Dopodiché tutto si confonde. Dentro la cassaforte che mi sono costruito, cassapanca, cassa da morto, non arrivano le voci del mondo. Non è confortevole eppure posso usare espressioni ridicole senza sentirmi ridicolo.
I miei occhi vedono le frasi. Le parole sbagliate. Trovano errori in modo semplice. Semplice è il percorso dei miei pensieri.
Non la mia interiorità, la mia mente o la mia memoria, bensì tutto quello che sta qui dentro. La mia stanza. Il cumulo di storie, di scrittori morti, soprattutto, e vivi, qualcuno.
Ascolto le voci che mi circondano e non riescono a sostenere lo spregio della lingua e dello stile. Io non ho stile. Mi appiattisco sui miei oggetti e sulla mia poltrona. L’anima dorme il sonno della mia età, quello di cui ho sempre sofferto. Anche da giovane. Sonno del sentimento e della riflessione. Rifugio nell’automatismo del quotidiano. Nella rimanenza rettiliana del cervello. Rannicchiato come un serpente, sto nel mio letargo a consumare quello che ho inghiottito da sveglio.
Una sola frase incastrata nella faringe, da espellere per salvarsi la vita, scivola nella trachea e si mescola con l’aria che irrompe dalla porta spalancata.
Entrano in formazione come piccoli predatori allenati alla caccia. Si dividono poco dopo per osservare gli scaffali da altezze diverse, i ragazzi del ping pong. Sono quattro fratelli, Benedetto ora si accorge di quanto si assomiglino, gli occhi scuri, le braccia lunghe, l’espressione impegnata, quella del gioco. Il più grande ha lo sguardo serio mentre gli si avvicina. È alto quanto lui.
«Cerchiamo un regalo per il compleanno della nonna.»
Benedetto fa un impercettibile movimento delle labbra.
«Ci vede ancora», aggiunge il più piccolo.
«Qualche preferenza?»
«Poesia.» Il grande lo fissa e abbassa subito lo sguardo. Gli porge un foglietto ripiegato.
«L’hai scritto tu?» Alcuni versi trascritti con una grafia incerta.
«È della nonna.»
«Gliel’hai preso?»
Il ragazzo sta per girarsi verso l’uscita, quando il piccolo dice che era insieme a un regalo. «Gliel’ha dato quando era come me.»
Benedetto gli consegna una raccolta di Rilke. Il maggiore sfoglia il libro e, dopo aver trovato la pagina, inizia a leggere a voce alta. I fratelli si guardano e sorridono, poi iniziano a ridere.
Chiuso il negozio, non riesce a smettere di pensare a quei ragazzi, soprattutto al più grande e impietoso di quell’amore che dedica le stesse parole e le stesse azioni ai suoi oggetti, amore che si ripete nel tempo e che è sempre lo stesso amore.
Una buona scusa per non dedicarsi alle solite storture. Da giorni insiste su una sola pagina.
Le parole che mi erano sembrate chiare, si trasformano. Leggo libri altri da quelli scritti. La stanchezza mi fa parlare da solo, senza sosta come un Krapp. Dormi che è tardi sei vecchio ti dolgono le spalle e le mani ti difetta la vista. E non ho nemmeno un registratore.
Maya lo chiama al telefono. La sua voce porta con sé una leggerezza di pensiero e movimento che si percepisce anche nelle parole più quotidiane: cosa hai mangiato per cena, quanti libri hai venduto oggi.
Le racconta dei ragazzi.
«Qual era la poesia?»
«Un grande energia intrappolata e così via.»
«Mio caro, non la buttare via così. Non è forse anche la tua preferita? Non sei tu quella pantera? Oppure sei un canarino? Come Titti, solo più triste e scorbutico.»
«Chi è Titti?»
La risata di Maya è un quartetto d’archi di musica barocca.
La prima volta che era entrata nella libreria, aveva acquistato alcuni volumi di una vecchia, introvabile collana di poesia e aveva chiesto che le fossero consegnati a casa. Perché lei non avrebbe mai, mai, mai potuto andare in giro con quel peso. Benedetto non era riuscito a rifiutare. Glieli aveva portati la sera stessa. Maya, in cambio, gli aveva presentato una scacchiera di onice.
Avevano iniziato a vedersi per giocare e bere brandy e caffè amaro in quantità.
Dopo averle dato la buonanotte, chiude il libro su cui sta operando.
Una luce si accende nel cortile, punta alla poltrona, nella stanza le ombre diventano di colpo drammatiche. Un’immagine lo aggredisce, gli penetra la mente. La macchia rosa. Una felpa, una felpa rosa shocking.

La prima volta che aveva visto il vecchio, Cleo era appena stata licenziata. Era arrivata tardi in ufficio. Nella sua stanza non c’era nessuno. Aveva chiuso la porta, si era sistemata al computer, aveva sbirciato il fiume dalla finestra. Le secche avevano formato delle spiaggette su cui un paio di ragazzi prendevano il sole. Non era sicura di invidiarli.
Aveva aperto la posta elettronica e trovato due nuove email. Una era un preavviso di licenziamento, l’altra l’invito a recarsi il prima possibile nell’ufficio del personale.
Aveva già ricevuto diversi richiami. I ritardi, le pratiche che si accumulavano e non procedevano verso la loro destinazione. Il suo negarsi al telefono, la ritrosia di fronte alla necessità di fornire risposte competenti. Il suo contestare con il silenzio tutta la tiritera dell’impiego delle proprie forze per il team. Il suo isolamento. In ogni richiamo c’era la descrizione puntuale di un suo comportamento inadeguato.
C’erano stati anche gli affabili avvertimenti dei colleghi, i si dice, i sussurri ascoltati per caso e tutti gli atteggiamenti ingannevoli che scorrevano sotterranei negli uffici. Poteva camminare sulle parole degli altri.
Alcuni colpi leggeri alla porta avevano interrotto la rievocazione. Si era bloccata come se i pensieri fossero una fabbrica in piena attività. Aveva cercato di spegnerla. Ancora colpi.
«Cleo, ci sei?» La voce della collega della stanza accanto. «Ti devo dire una cosa.»
Cleo si era infilata dietro un enorme schedario di metallo e si era rannicchiata contro il muro. «Cleo.» La voce era entrata. Si era fermata davanti alla scrivania. Una penna veloce aveva strisciato su una superficie. Qualche secondo dopo aveva sentito la porta che si chiudeva.
«Questa sarà la mia scrivania.» Ecco cosa le aveva scritto. Non c’era cattiveria, esasperazione piuttosto.
Poi Cleo aveva scritto una email per rassicurare l’ufficio del personale sulla sua intenzione di non usufruire del preavviso e di dare dimissioni immediate. Non avrebbe visto nessuno. Era scivolata fuori dalla stanza, lungo i corridoi aveva evitato di voltarsi verso le porte aperte, aveva scelto una scalinata che portava a un’uscita laterale.
Le nuvole di caldo l’avevano chiamata, andavano inseguite, dorate e poi rosa e arancio. Cleo voleva solo passeggiare tra le strade del centro. Mano a mano che si allontanava dall’ufficio, sentiva sempre più flebile la voce della misera quantità di acqua rimasta a precipitare da un dislivello artificiale dove il letto del fiume si allarga e corre sotto i ponti storici affollati di turisti.
Nemmeno la facciata della chiesa sul lungo fiume rimandava il suono in modo chiaro, quell’effetto eco per cui se ti mettevi lì vicino potevi sentire l’acqua come se sgorgasse dalle pareti. Si era inoltrata sotto un arco alla ricerca di ombra, ché tanto tutto il sole era occupato da persone in canottiera e pantaloncini. Era passata accanto a un cinema chiuso, a un negozio di guanti e poi era entrata in una piazza dove un’altra chiesa dai mattoncini rosicati da quattro o cinque secoli rimaneva nascosta alla maggior parte dei visitarori. In quelle strade si era sentita tranquilla. Così tranquilla che aveva deciso di variare il percorso abituale ed esplorare una zona che di solito evitava perché piena di studenti.
Di fronte alla strada appena imboccata, in un angolo incastrato tra due palazzi che quasi si sfioravano, c’era una libreria chiamata “Libri”. L’insegna si leggeva appena. In vetrina, uno scaffale in legno scuro esponeva titoli che non le dicevano nulla. In alto c’era scritto: “La selezione della settimana”. In mezzo: “Usati”.
Aveva notato subito la copertina rosa e nera con il suo nome sopra. “Sopravvivere all’amore”. Era entrata dopo aver intravisto un’altra copia sopra un tavolo. Lo stupore l’aveva lasciata a osservare la linea che divideva i due colori. L’editore le aveva propinato la stupidaggine per cui quella scelta dovesse rappresentare l’oscillazione tra tenerezza e oscurità. Rosa e nero si dividevano lo spazio in parti uguali, una linea longitudinale bianca ne sanciva il confine. A Cleo non importavano molto le metafore, il rosa era il suo colore e questo le bastava.
Due copie. Ben due copie incontrate per caso. Non se lo aspettava. Il libro era fuori circolazione. Quante copie potevano esserci in giro? Il pensiero che qualcun altro potesse ancora toccarle la faceva tremare. Tutto quello che le era rimasto di quel libro, lo aveva nascosto. Perché era capitata proprio lì?
Il sole non doveva essersi mai affacciato in quel negozio dall’aspetto e il clima di una caverna. Cleo aveva messo una mano a protezione del collo sudato. Poi l’aveva strofinata sui pantaloni e aveva preso il libro.
Stava per aprirlo, quando aveva notato un vecchio appollaiato su uno sgabello, impegnato a fare la punta a una matita con una specie di coltellino. Ogni tanto faceva una pausa, allungava il braccio sinistro, metteva la matita in controluce e sembrava valutare i progressi del suo lavoro. Di matite, ne aveva un bicchiere pieno.
Il suono di quei tagli netti che scheggiavano il legno, le aveva procurato un fastidio alla bocca, qualcosa era scoppiato sulla lingua e poi era sceso lentamente in gola grattando le pareti. Non avrebbe dovuto stare ferma più a lungo. Se il vecchio l’avesse vista, perché ancora non l’aveva vista, ne era certa, se l’avesse vista le avrebbe detto qualcosa. E avrebbe tenuto il coltellino in mano. Lo avrebbe puntato contro di lei.
Cleo aveva tenuto il suo libro con la mano sinistra, fatto scorrere la destra su altre copertine, preso un altro libro a caso e trattenuto il fiato prima di avvicinarsi al bancone.
Gli occhi del vecchio si erano alzati un momento verso di lei. Le aveva preso i libri dalle mani e fatto lo scontrino senza una parola. Non le aveva dato il tempo di chiedere l’altra copia, troppo esposta, il rosa ormai scolorito.
Cleo aveva i piedi bloccati sul pavimento dal colore incerto. Di pietra fredda. Si concentrava affinché il suo libro sparisse dalla vetrina per proteggerlo dagli sguardi dei passanti.
Il vecchio non la vedeva già più, era tornato a quella sua attività meccanica. Matita, temperino, controllo, matita, temperino, controllo. Cleo aveva fatto un passo indietro. Poi un altro. Aveva urtato un tavolo. Ma non era successo niente, tutto nella libreria sembrava ignorare la sua presenza.
Era scappata. In strada, aggrappata ai libri che teneva tra le mani, si era allontanata fino a non vedere più la libreria. Voltato l’angolo, si era fermata a prendere fiato, poi era entrata in un piccolo caffè. Aveva ordinato un Gran Caffelatte, cioè una ciotola con mezzo litro di latte caldo appena macchiato e una fetta di torta di carote. Si era accomodata con il libro davanti a sé.
La frase di apertura era segnata in rosso. Le era parsa una nota positiva, qualcuno aveva trovato interessante l’inizio della sua storia. In alcuni punti la costola era particolarmente segnata. Aveva aperto quelle pagine e trovato alcune cancellature fatte con un bianchetto a nastro, righe sovrascritte a mano con una grafia fine e precisa. Aveva continuato a sfogliare, i suoi occhi non avrebbero potuto ingannarsi, altre pagine presentavano frasi riformulate e alcuni passaggi erano stati del tutto eliminati, altri marchiati da un pennarello nero. Interi paragrafi presentavano degli inserti su fogli a parte, inseriti tra le pagine. La grafia era sempre la stessa.
Dopo aver pagato, Cleo aveva afferrato la torta ed era corsa a casa.
Al sicuro nella sua stanza, con le mani ancora appiccicose di zucchero e carote, aveva recuperato una delle copie che le erano rimaste del suo libro, e si era messa sul letto a confrontare le due versioni.
Nel testo contraffatto, pagina dopo pagina, si susseguivano cancellature e correzioni, parole che non erano le sue, un tono diverso, la voce di qualcuno che si era sostituito a lei. In alcune pagine, del tutto cancellate, si percepiva una violenza, un disprezzo, quasi un odio nei confronti del suo testo.
Tutte le correzioni formulate in pagine a parte andavano in una direzione completamente diversa da quella pubblicata. C’era stata una lotta su quelle pagine. La grafia fine e ordinata contrastava con il gesto brutale del pennarello nero che deturpava interi paragrafi. Le cancellature fatte con il bianchetto, più precise, riguardavano solo alcune frasi poi riscritte direttamente sulla pagina. Frasi che, anche nel testo originale, ora le suonavano estranee, ma che rimanevano l’ossatura della sua storia. Le nuove versioni erano coltelli che ferivano la sua intimità. Lei sapeva di cosa parlava, quella scrittura elegante non ne aveva idea. Parole rozze non sempre corrispondevano a pensieri rozzi, era la sostanza della sua storia che era grossolana e non si poteva raffinare in alcun modo.
Non si poteva nemmeno parlare di correzioni, quei cambiamenti erano disfacimento e creazione alieni e cancerosi e poi c’erano le sottolineature in rosso e di quelle veramente non riusciva a capire il senso, era una presa in giro forse, sentiva risate in quella matita rossa.
Aveva represso appena in tempo l’istinto di fare a pezzi quelle pagine, era meglio conservarle per qualcosa di futuro, erano una prova, non sapeva di cosa però era spaventata e voleva scoprirlo.
Aveva preso un pacchetto di biscotti, li aveva finiti con calma, poi si era arrotolata come un gomitolo intorno ai due libri.
La mattina successiva era tornata in libreria. Si era dedicata a esplorare uno degli scaffali vicino al bancone.
Il vecchio era lì, immobile sul suo sgabello e non guardava niente. Sembrava addormentato. Si risvegliava solo in risposta a uno stimolo esterno.
Un motorino sui sanpietrini. Urla di ragazzi. La vicina che si accendeva una sigaretta dietro l’altra, le cicche che volavano dalla finestra a ritmo costante.
Il vecchio ruotava il collo a portare lo sguardo fuori dalla vetrina mentre il corpo rimaneva nella stessa posizione. Stava lì come una figurina sottile, pronta a essere appiccicata su un album.
Cleo si era chiesta quando avrebbe preso vita e in che modo, aveva cercato di non fare rumore e si era spostata verso un tavolo su cui era appoggiato un cartello con sopra scritto 50%. Aveva preso un libro e poi un altro e poi un altro, li apriva a caso in cerca di un segno. Non poteva pensare all’eventualità che solo il suo libro avesse ricevuto quelle attenzioni. Ma perché avrebbe dovuto esserci un altro libro modificato? Non si sa da dove vengono i libri usati.
Si era asciugata più volte le mani sui pantaloni. Ecco che un libriccino lungo e stretto, dalla copertina lucida, si era aperto a dimostrare che nessuno se l’era presa con quello che aveva scritto proprio lei. Chiunque fosse, si era preoccupato anche di altri. Sottolineature, cancellature, bianchetto, pennarello nero, fogli scritti a mano inseriti tra le pagine.
Era uscita senza comprare niente. Si era nascosta dietro un angolo, ogni tanto sbirciava l’ingresso della libreria. Il vecchio e le sue matite. La matita rossa, quella più corta di tutte, aveva catturato il suo sguardo. L’aveva allacciata a sé. Vedeva righe rosse che si estendevano tra lei e la strada, tra lei e il negozio. Aveva aspettato tutto il giorno. Il vecchio aveva lasciato la libreria solo all’ora di pranzo per andare in una trattoria. La sera aveva chiuso dall’interno. Abitava nel suo antro.
Da quel momento, Cleo aveva preso a osservarlo tutti i giorni.

Domenica, il vecchio esce dalla libreria e chiude la serranda con cura. Cleo lo segue fino a un portone. Lo vede accompagnarsi a una donna piccola e bionda. Il vecchio vuole bene a qualcuno, qualcuno gli vuole bene. Arrivano alla solita trattoria, vengono accolti con calore.
Il suono del coltellino che taglia il legno delle matite rimbomba nella testa di Cleo. Matita, temperino, controllo. Matita, temperino, controllo.
Aspetta fino alla sera e poi li segue ancora, finché il vecchio non rimane solo, al rientro in libreria. Accanto al negozio c’è una sorta di galleria, chiusa da un cancello, da cui si intravede un cortile interno. Cleo l’ha adocchiato in precedenza, non l’ha mai preso in considerazione, ma ora il vecchio scuote il cancello, guarda nel buio, si sofferma, poi apre il negozio e si chiude dentro.
Cleo aspetta poi, certa della propria solitudine, scavalca il cancello. Dopo uno stretto corridoio, sbuca in un quadrilatero pieno di finestre. Osserva quelle del piano terra finché non scorge, tra le sbarre, un tavolo disordinato, libri ammucchiati dappertutto, fogli accartocciati per terra. Ci sono penne, matite e un bianchetto a nastro. Il vecchio, abbandonato su una poltrona, con un libro in mano, come morto.

Il lunedì mattina Cleo si sistema nel solito angolo. Vede entrare dei ragazzini. Poco dopo escono. Il resto della giornata è tranquillo.
A sera attraversa di nuovo il tunnel. Una lucetta illumina appena la finestra della libreria. Vede il vecchio allontanarsi, sente la sua voce che rimbomba all’interno del negozio. Poi torna nel retrobottega. Prende un libro, poi un altro.
Cleo non riesce a staccarsi, è come incollata alle sbarre. Il conto di tutte le parole sostituite alle proprie la stordisce. Le righe rosse la attraversano.
Una luce violenta si accende nel cortile, spezzando il suo profilo. Un ritaglio della sua ombra cade sulla poltrona del vecchio che le rivolge uno sguardo perduto, da fantasma a fantasma.