Oriana

Mi ci volle una bella fetta di coraggio, quella sera, per dire ad Oriana che la nostra storia era finita.
Forse esagerai un po’ col melodramma. Spesso mi capita. Ma quando siamo costretti per anni in una posizione falsa, parliamo sempre più del necessario. Le dissi che mi sentivo intrappolato in una relazione tossica; che lei pretendeva di tutto e dava il giusto; che insomma non era tanto il fatto di non riuscire più ad amarla (anzi ci avevo messo fin troppo a non amarla più): era lei ad essere incapace di amare me senza farmi del male.
Uscii da casa sua che era passata la mezzanotte. La luna era scomparsa dietro una muraglia di nubi e sentivo il vento soffiarmi negli spazi tra la giacca e il collo. Tirai su il cappuccio proprio mentre mi cadevano sul naso le prime gocce di pioggia.
Col vento sempre più forte e una doccia gelata dritta sui miei occhiali, andai avanti stringendomi nella giacca, scantonando fuori dal quartiere dove Oriana viveva, tutto villette e giardini, e scivolando insensibilmente verso il supermercato aperto di notte, dove tante volte ero andato a prendere da mangiare a orari improponibili. Via via che proseguivo verso lo spiazzo illuminato, mi pareva di vedere qualche macchina che parcheggiava, qualche barbone fuori a scancherare, forse un nottambulo che entrava dalle porte scorrevoli con in mano una lista fradicia d’acqua. Girai sull’altro lato del supermercato, dove contavo di trovare – e c’era – il fastfood.
Entrai e fui immediatamente cieco, le lenti degli occhiali appannate per l’aria calda dell’interno. Me li tolsi dal naso. L’odore di fritto e salsa in agrodolce mi colpì il naso e immediatamente lo stomaco borbottò. Mi trattenni a stento da saltare lì dov’ero, a piedi uniti, per la pura gioia di farlo. Oriana non era più nella mia vita. Oriana non mi avrebbe mai più detto che ero grasso. La pioggia che batteva contro le vetrate del locale, ora furibonda – l’acqua fredda che sgocciolava dalla mia giacca, dai capelli, dalle suole infracidite delle mie scarpe, poteva essere tanto l’incazzo di Oriana che si trasferiva alla natura inanimata e cercava di annegarmi, quanto tutto il suo orrore che colava via da me come acqua, per non tornare mai più.
Gironzolando per il locale, mi guardai attorno. Una coppietta mangiava insieme da una confezione di patatine. A un altro tavolo c’erano un padre e un figlio bambino, forse in viaggio da un po’ e con molto sonno addosso. Dalla parte opposta sedevano quattro ragazzini di meno di vent’anni, probabilmente in attesa della corriera per il concerto al Paladozza. Zero fila al bancone. Ho preso possesso di un tavolo tutto per me appoggiando zaino e giacca su una sedia e mi sono scaraventato alla cassa. Cosa avrei mangiato per festeggiare? Una volta un amico mi ha detto che quando torno al tavolo con il cibo ordinato al bancone di un fast food, sembra che debba nutrire le mie due mogli e dodici figli in Botswana. A parte che mi pare uno scherzo molto colonialista, la gente esagera sempre. Sono una buona forchetta, tutto qua.
– Cosa prende, signore?
– Allora, il menu quello lì, con patatine e bibitona, ci aggiunge per favore quell’hamburger lì, poi anche sei crocchette di pollo, no anzi nove, le patatine me le fa quelle americane, no senza la salsa barbecue, la salsa la voglio alle cipolle, anzi mi dà pure gli anelli di cipolla, sì e il menu quello grande ovviamente, e poi mi ci mette del bacon nell’hamburger?
– Su quale dei due?
– Tutti e due.
– Anche su quello al pollo?
– Sì sì, tutti e due, e la bibita facciamo una coca, grande ovviamente, e se non si scioglie subito mi fa anche un gelato?
– È rimasto solo il gusto all’Oreo.
– Niente Smarties?
– Purtroppo no.
– Pazienza, lo prendo lo stesso.
La carta trilla. Mentre aspetto il cibo pesto i piedi e striscio le suole. Mi innervosisco sempre, come un ghepardo che ha appena abbattuto una gazzella e sente che più tempo passa a non mangiarla, più è facile che arrivi un leone e gliela freghi. Finalmente mi atterra il cibo sul vassoio, e cercando di non far cadere tutto mi accomodo al tavolo. Prima di mettere mano alla cena, tiro fuori dal mio zaino Julie ou la nouvelle Héloïse di Rousseau. Oriana, vedete, non mi ha mai permesso di mangiare tranquillo in sua compagnia. Si doveva sempre parlare di qualcosa. Io a pranzo preferisco stare zitto. E quando sono da solo, leggere un buon libro mentre mangio. A Oriana però non andava bene nemmeno questo. Dice sempre – è una neurologa – che non si doveva confondere il piacere della lettura e quello del cibo, che sono neurologicamente diversi e non si gode abbastanza e bla bla bla. A dire il vero Julie la volevo cominciare domani, ma stanotte mi sento ispirato. Lo comincio ora. Qui. Un catafalco di ottocento pagine. Mentre infilo la faccia in un hamburger col bacon, insalata, manzo, pomodori e formaggio. Tiè, stronza. Vieni a dirmelo adesso, che non dovrei.
Non so dire cosa succede quando le mie gengive registrano il sapore del burger. Credo si chiami orgasmo. Però non sto scopando. Che il vero sesso sia sempre e comunque col cibo? Ma il fatto di masticare un pezzo di burger mentre leggo le voluttuose dichiarazioni d’amore di quel narcisista di Saint-Préaux – non so, mi pare che l’orgasmo valga doppio. Dopo cinque o sei bocconi mi arrischio ad accostare la pinta di coca cola alla bocca – ho una sete da bestia – ed ecco il ghiaccio che mi si accumula sul labbro superiore come tante zattere nell’oceano mentre inclino il bicchierone di carta giù verso la gola. La freschezza saporita, zuccherina, acquosa mi annienta di godimento. Sento sulle dita della mano destra la consistenza liscia, cartacea del libro che ho in mano, l’odore di patatine e di salsa su per il mio naso. I sensi in corto circuito, libero un gemito, o forse un grugnito.
Probabilmente a causa del sovraccarico cui sta andando incontro il mio sistema nervoso, non faccio caso al tempo che passa. Ci vuole un bel po’ prima di accorgermi che il brusio dei pochi clienti del locale si è trasformato in un gracchiare acuto. Non sento più il rumore della pioggia fitta, ma una lenta inesorabile compressione sui vetri delle finestre, che paiono incrinarsi come calici stretti in un pugno. Poso il libro sul tavolo. La patatina che sto tocciando nella salsa resta sospesa nel vuoto.
Fuori dal fastfood non si vede più niente. È tutto nero. Gli altri clienti, addossati alle finestre, cercano di capire che sta succedendo. I commessi di là dal bancone, nella cucina che ancora manda rumori di frittura e di olio che schizza, vanno avanti e indietro tra la cucina e la porta, senza sapere che fare.
Ah, ma lo so io che è successo. Mai che nella vita uno possa stare in pace. Mi alzo, mi pulisco le mani con una salvietta, metto le mani sui fianchi tipo battaglia del grano – l’occasione richiede che io mi dia un certo tono – e procedo a grandi passi verso la porta a vetri del fastfood.
Che io sia spaventato a morte, è un dettaglio secondario.
La fotocellula scatta alla mia presenza, la porta a vetri si apre, ed ecco davanti a me, immersa in una tenebra senza fondo e senza fine, un rombo di tuono in sottofondo, la statua.
Prendo un respiro, butto il petto in fuori, corrugo la fronte.
– Oriana, ti ho detto che è finita. Vattene.
La statua, rossa come i cornetti che vendono a San Gregorio Armeno e forse più lucida, non dà segno di avermi sentito. Non sapendo dove fissare lo sguardo, vago senza meta dai capelli fluenti, al bel viso di ragazza, al seno tornito, alle pieghe sapienti della veste, più morbide su quella pietra insensibile di quelle del materasso di Paolina Bonaparte come lo scolpì Canova. Oriana è sempre bellissima, certo – ma quanta gelida indifferenza in lei.
– Oriana, bisogna che te ne vai. Ci sono anche altre persone in questo locale e li stai spaventando.
La tenebra si accende di vermiglio, e ruggisce per tutta la sua estensione. La statua pare animarsi, vibrare. Ma devo resistere.
– Certo che non t’importa. Quando mai t’è importato di qualcuno. Ma io sono stanco di questo atteggiamento e delle tue opinioni – sono davvero al capolinea.
La statua trema.
– Non dirlo nemmeno per scherzo. Tu non sei capace di soffrire. Non sei capace di sentire. Sembri fatta di pietra. Non farmi ripetere per la duecentesima volta quello che ti ho detto neanche un’ora fa.
La statua mi si avvicina. Il fremito della carne che provavo un tempo alla vista di quelle forme perfette è diventato repulsione.
– La lista è lunga. Grasso, stupido, mani di burro, incapace, pisciasotto, fallito – devo continuare? Ne ho per stanotte e domani e domani notte. Me ne hai dette di tutti i colori e non me ne sono scordata una. E questo non era nemmeno il problema più grave.
Di nuovo la tenebra si colora di rosso e s’incendia di un fuoco inestinguibile, che sento bruciarmi le punte delle dita.
– Oh, se tu avessi saputo usare questo calore per amarmi. E invece non ho avuto un momento di vera felicità con te. Devo parlare più chiaramente? Stare con te mi stava uccidendo. Tu per me non sei più nessuno. Sparisci dalla mia vita, Oriana.
La statua viene come percossa da un fulmine, in un baleno di luce che mi fa chiudere gli occhi. Li riapro, e una spaccatura la percorre da un lato all’altro, come in un vaso incrinato per l’urto con la pietra. In meno di un secondo la statua non è più alla porta, la pioggia ha ricominciato a battere sulle finestre, la luce delle macchine sull’autostrada e dei lampioni e delle insegne ha ripreso a illuminare a giorno questa notte di tempesta.
Lascio che gli altri clienti e i commessi provino a raccapezzarsi su quanto è accaduto. Non m’interessa. Torno al mio tavolo, mi siedo, riprendo le patatine sperando che non si siano troppo raffreddate. Mentre mangio mi cola inesorabile sulla guancia una lacrima, mi si contrae il viso. Ha voluto tornare, ha voluto cercare di riprendermi con sé. E tutto questo non per amore – voleva solo riprendere possesso di me, trascinarmi nuovamente nella sua casa immonda, nella sua dimensione dell’orrore.
Senza volerlo, piango in silenzio. Ho buttato fuori Oriana dalla mia vita, ma ci vorranno tanti anni per buttarla fuori dalla mia testa.