El futurismo siempre es glitter: Pedro Almodóvar e la Movida

Se esiste un’icona della Movida madrileña, questa è sicuramente l’esibizione di Pedro Almodóvar e Fabio McNamara in Laberinto de Pasiones (1982). I due cantano in abiti femminili Suck it to me, una sorta di parodia anglo-ispanica di un tormentone della cultura popolare statunitense. Come l’esperienza insegna, definire fenomeni culturali di massa è sempre complesso: fatti e memorie si mescolano fino a diventare materia indistinguibile. Questa è la ragione per cui i simboli e le icone, reali o parodiati, arrivano sempre dritti al punto. I primi lavori di Pedro Almodóvar si muovono esattamente in questa direzione. La Spagna degli anni Ottanta è infatti un grande laboratorio di arte, cultura e socialità. Il Paese iberico, dopo la morte di Franco e una tormentata fase di Transición, prende al volo l’ultimo treno per la modernità. Se di passato ancora non si può parlare, bisogna rivolgere lo sguardo al futuro. La Movida, dunque, non è altro che l’esplosione simultanea e incontrollata di creatività repressa, fame di internazionalismo e necessità di sotterrare definitivamente i fantasmi di una guerra che ha lacerato il Paese per oltre mezzo secolo. Il regista manchego, così chiamato perché originario di un piccolo paese de La Mancha, è probabilmente al posto giusto e al momento giusto. Arrivato a Madrid al principio degli anni Sessanta con il proposito di studiare cinema, trova lavoro come impiegato presso la compagnia telefonica nazionale. Con i soldi guadagnati compra una cinepresa Super 8 iniziando a sperimentare lontano dall’accademia: è probabilmente questo tipo di formazione che – anni dopo – gli consentirà di vivere la Movida sia come spettatore che come protagonista. Negli anni in cui frequenta i celebri locali di Malasaña, infatti, Almodóvar prepara il suo esordio con Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón (1980). Il film, che dovrebbe inserirsi nel solco di Pink Flamingos (John Waters, 1972), è in realtà un’opera caustica, divertente e già ampiamente matura. Il lungometraggio, introdotto dai disegni di Ceesepe, mostra ciò che sugli schermi spagnoli non s’era mai visto: giovani che finalmente rivendicano il proprio essere classe sociale. Ma anche (e soprattutto) donne che non hanno paura di mostrare la propria esuberanza e la volontà di irridere anche la più sacra delle convenzioni. Pepi è una ragazza che passa il tempo a fumare marijuana e a cercare chi possa comprare la sua verginità, Luci è una casalinga con tendenze masochiste che sposa di proposito un poliziotto violento (che, suo malgrado, continua a trattarla «come la mamma»), Bom è una sadica che affronta con naturalezza pratiche ancor’oggi considerate da bollino rosso. C’è poi naturalmente l’omosessualità, tematica ricorrente nella filmografia almodovariana, che smette di essere stigma e stereotipo, anche se – per ora – continua a rimanere causa di marginalità. Il successo totalmente insperato spinge il regista a girare Laberinto de Pasiones (1982) in cui – proprio come in un labirinto di storie inconcludenti – mescola il fantathriller politico, la tematica psicoanalitica (con un formidabile omaggio-parodia a Marnie di Hitchcock), la cultura punk e la sessualità esuberante. A differenza dell’esordio, il manchego sembra maggiormente consapevole dell’atmosfera culturale che lo circonda e i suoi personaggi non esitano a diventare maschere di quel fermento. C’è il parrucchiere ossessionato dalle ultime mode («senza vizi e senza rimmel sono isterica»), il cantante punk sbruffone, la ragazza borghese ninfomane. Almodóvar, a differenza dei contemporanei Carlos Saura e Luis Berlanga, rifiuta l’analisi sociologica e distaccata del suo tempo: vuole, al contrario, farvi immergere lo spettatore in prima persona. Tramite famiglie disfunzionali e personaggi eccentrici si è catapultati in una Madrid fatta da immigrati in cui il potere e il patriarcato sono deboli e grotteschi. Basti pensare al poliziotto di Pepi, Luci, Bom che organizza una retata per sequestrare una pianta di marijuana in plastica; il ginecologo che pratica solo inseminazione artificiale perché è sessuofobico; il tassista di ¿Qué he hecho yo para merecer esto? (1984) che – dopo essere stato ucciso con un pollo congelato – lascerà a piedi il passeggero della vita. Quest’ultimo film, apparentemente diverso dai tre precedenti, è proprio una sfiziosa satira al cosiddetto neorealismo spagnolo dei vari Saura e Berlanga. D’altronde lo stesso regista ha più volte ribadito di non voler inserire drammi politici, poliziotti o repressione nei suoi film: anche questa è ubriacatura da Movida. Da qui in poi Almodóvar realizza tre film che – a modo loro – definiranno i temi dominanti della restante filmografia e limeranno gli eccessi dei primi periodi. Matador (1986) prende di mira, come si intuisce dal titolo, ciò che era più sacro per il popolo spagnolo, portando in scena un torero assassino. Si scende a patti anche con la trama: l’intreccio è ben delineato e meno schizofrenico. La Ley del Deseo (1987), oltre a definire il topos della relazione omoerotica (tema per la prima volta centrale), inaugura la lunga serie di incursioni metacinematografiche, di set sui set e di registi tormentati. Ultima tappa della prima ricerca stilistica almodóvariana è ovviamente Mujeres al borde de un ataque de nervios (1988), film della consacrazione nazionale e della notorietà internazionale, una commedia matura che può permettersi persino l’autocitazione. Il Paese è nel frattempo radicalmente cambiato: i socialisti governano ormai da sei anni, i bar della Movida iniziano a chiudere, i gruppi culturali si sciolgono, qualcuno inizia a pensare che «contra Franco se vivía mejor». Al vertice del cinema e della televisione spagnola è nel frattempo arrivata Pilar Miró che – puntando sulla qualità – riesce a rilanciare il cinema nazionale all’estero. Gli artisti della Movida, ognuno a proprio modo, promuovono l’immagine moderna del paese in occasione dell’Expo di Siviglia e delle Olimpiadi di Barcellona, entrambe nel 1992. Ciò che nel film di Almodóvar si concretizza in pistole e gazpacho o nelle locandine di Oscar Mariné. Durante gli anni successivi, e fino ad oggi, il manchego continua a perseguire una meravigliosa ricerca volta al minimalismo e al perfezionamento dei dettagli, pur sempre perorando le solite ossessioni. È in un clima diverso, di ricerca interiore e introspezione, ma anche di turbolenza politica, che iniziano a far capolino nel suo cinema l’autobiografismo, il doloroso ricordo del franchismo, il tema della vecchiaia. D’altronde, come diceva McNamara in Laberinto de Pasiones, «Il semplice non è mai stato moderno. Il moderno è sempre futurista. Il futurismo è sempre glitter». Non è più tempo per il futurismo.